L’immortale fascino di Babar l’elefantino

Le storie di Babar, Jean de Brunhoff - 2013, Donzelli
Le storie di Babar, Jean de Brunhoff – 2013, Donzelli

Nella grande foresta è nato un elefantino. Si chiama Babar. La sua mamma gli vuole molto bene e per farlo addormentare lo culla con la proboscide cantando dolcemente.

Queste le prime parole che introducono la storia di Babar, celebre elefantino nato dalla fantasia di Cécile de Brunhoff e poi narrato e illustrato dal marito Jean, artista parigino, che dal 1931, data della sua prima pubblicazione, assieme a Nel Paese dei mostri selvaggi e Pinocchio, ha visto centinaia di ristampe e traduzioni (celebre quella in inglese del 1933 ad opera di A. A. Milne, autore dell’altrettanto noto Winnie the Pooh) entrando a far parte dell’immaginario più familiare dei bambini di decine di generazioni.

Le storie di Babar, Jean de Brunhoff - 2013, Donzelli
Le storie di Babar, Jean de Brunhoff – 2013, Donzelli

Chissà se Walt Disney pensava a questo incipit quando dieci anni dopo, nel 1941, raccontava la storia di Dumbo… lo dico perché quando ho ripreso in mano le storie di Babar grazie all’ultima edizione di Donzelli, che raccoglie tutti i racconti, l’immagine della Signora Jumbo che infila faticosamente la proboscide tra le sbarre della sua cella per raggiungere il piccolo Dumbo e cullarlo cantando una struggente ninna nanna è stata la prima a venirmi in mente. Nel film Disney come tra le pagine di Brunhoff, la storia dei due elefantini incomincia proprio quando le mamme escono di scena, quella di Babar ancora più tragicamente della signora Jumbo, un cacciatore, infatti, la uccide; da allora per Babar la vita cambia radicalmente: per sfuggire al cacciatore abbandona il suo luogo selvaggio per trovare rifugio in città (tendenza assolutamente figlia dell’epoca e del tutto contraria alla nostra contemporanea in cui semmai il percorso è all’inverso, dalla città alla natura).

Le storie di Babar, Jean de Brunhoff - 2013, Donzelli
Le storie di Babar, Jean de Brunhoff – 2013, Donzelli

Dal ritrovarsi sperduto e affranto Babar trova conforto nello shopping e, dopo aver ricevuto in dono del denaro da un’anziana signora che diverrà sua amica si reca ai grandi magazzini e si dedica all’acquisto di vestiti eleganti, ansioso di adeguarsi all’atmosfera cittadina, di umanizzarsi. Questo rapido processo di umanizzazione si radica in Babar al punto di tornare dai suoi cari selvaggi per civilizzarli, vestirli di pizzi e merletti, abituarli all’uso delle posate e a vivere in un bellissimo Palazzo (feudo) con un grande giardino, il cui senso si perde, considerato che sbocca su un’immensa distesa verde, e che invece sottolinea il desiderio di circoscrivere, di creare un recito alla Robinson Crusoe maniera. Quando i rinoceronti rifiutano questo processo di civilizzazione, colonizzazione, vengono affrontati e sconfitti. Una volta instaurato e consolidato il proprio potere, Babar, ormai cresciuto, può tranquillamente crearsi una famiglia e intraprendere avventure nelle quali, comunque, l’attenzione ai vestiti e alle ricorrenze di rappresentanza non diminuisce mai.

Mi domando quanto il lato affettivo e il gusto della memoria condivisa contino nel perpetuare il successo di Babar e delle sue avventure. Ma le mie domande puntigliose e la mia lettura ipercritica non bastano a sopperire alla curiosa tenerezza che questo elefantino in ghette suscita naturalmente. Le illustrazioni sono splendide e presentano una novità per come era inteso l’albo illustrato all’epoca; non mi dilungo nel descriverle, giacché una voce molto più alta l’ha già fatto in passato “Tra il 1931 e il 1937, Jean de Brunhoff ha compiuto un’opera che ha cambiato per sempre il volto del libro illustrato. Nessuno prima di lui è riuscito a concepire l’illustrazione a doppia pagina con pari effetto drammatico e di sorpresa. Le righe di testo che scorrono alla base delle immagini sono così semplici ed efficaci che l’arte letteralmente sboccia da esse”. (Maurice Sendak)

Tra gli estimatori celebri del re elefante oltre i già citati Milne e Sendak c’è anche un celebre compositore, Poulenc; se ne avete voglia potete ascoltare qui di seguito come musicò le sue avventure.

519Q6pjsUDL._Titolo: Le storie di Babar
Autore: Jean de Brunhoff
Editore: Donzelli
Dati: 2013, 320 pp., 32,00 €

Trovate questi libri tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma. Oppure, se non siete a Roma chiederci di spedire a casa vostra, lo faremo con molto piacere ricorrendo a Libri da asporto.

Viaggi

Se un giorno dovessi mettermi in viaggio, lo farei con un berretto da aviatore color panna, decorato da stelle azzurre. Certamente questo indosserei, se dovessi partire assieme a uno stormo di anatre dalle ali maculate, a strisce, coi pois. E lo farei andando, non tornando. A tornare penserei dopo. Dopo poco, credo; il tempo di un respiro di aria fresca dei monti, un sorso di acqua ghiacciata dalla canna di una fontana nel bosco. Poi mi unirei allo stormo che torna, perché adoro stare a casa, coi miei cari.

Certo, porterei con me un libro, andando e tornando. E sceglierei Viaggi, di Anna Benotto, per non sentire mai l’inadeguatezza dello stare laddove altri non starebbero, nel provare nostalgia laddove altri farebbero spallucce, nell’andare troppo velocemente, perdendomi non so cosa ma di certo preziosa, o rallentare, quando ci sarebbe da pedalare forte.

Viaggi, di Anna Benotto, ha un ritmo che non ne segue uno. Ha un ritmo che sussurra e canta, che saltella e ristà quieto. Ha un ritmo che è suo e che è mio, come sarà vostro; uguale e diverso, dettato dal morbido susseguirsi di grigi morbidi, sfumati e poi pieni; di rosa che sembrano tramonti e invece no, di azzurri, senape, giallo tenue di raviolo (o tortellino).

Un orso, di cui intuiamo solo il profilo, vagheggia dinanzi alla mappa di una Terra che sembra ancora Pangea, con grandi mari, ampie distese di luoghi senza nome. Vagheggia oppure programma. O sogna. Ci da le spalle, ma nella piega morbida della sua schiena, nel naso all’insù ad annusare l’aria, leggiamo una tensione al prendere e andare, curiosa, impaziente.

E infatti parte e viaggia, a modo suo. Va all’esplorazione di molti luoghi, percorrendo altrettante strade che conducono tutte a un’unica, splendida, destinazione: se stesso.

Con poche parole e tratti minuti e fitti, questo albo così elegante e riservato, così quieto e intraprendente è un inno all’atto stesso del viaggiare inteso come scoperta, meraviglia, avventura, amore.

Lo trovate tra gli scaffali de Il Giardino Incartato, libreria indipendente a Roma, in via del Pigneto 303/c

La zuppa Lepron in mostra al giardino incartato

In occasione della mostra delle tavole originali, che inaugurerà il 3 febbraio negli spazi della nostra libreria, ho posto alcune domande a Giovanna Zoboli, autrice assieme a Mariachiara di Giorgio de La zuppa Lepron, albo illustrato, edito da Topipittori, che ci ha conquistate dal primo momento in cui l’abbiamo sfogliato.

Quali sono gli ingredienti segreti che rendono così deliziosa la Zuppa Lepron? Forse potrà svelarcelo 𝐌𝐀𝐑𝐈𝐀𝐂𝐇𝐈𝐀𝐑𝐀 𝐃𝐈 𝐆𝐈𝐎𝐑𝐆𝐈𝐎, la vincitrice del Premio Andersen 2022 come migliore illustratrice, che sarà presente all’inaugurazione e terrà anche un piccolo laboratorio a tema per i partecipanti.

Radicate in un orto di cavoli e carote estremamente realistico, le tavole di Mariachiara di Giorgio saltano con balzi repentini la staccionata della realtà, per atterrare mollemente sul prato incolto della meraviglia. Le parole di Giovanna Zoboli si muovono tra la veglia e il sogno leste, in un perfetto passo a due, evocando la contemplazione delle piccole cose, il sapore, profumato, della semplicità.


Giovanna, questa intervista su La zuppa Lepron arriva a molti mesi dalla sua uscita, quindi tanto è già stato detto e tutti sappiamo, nei boschi ma anche in città, che l’idea è nata proprio da un incontro fortuito con un lepre svizzero, battezzato Lepron. Da quell’incontro, come sei arrivata alla zuppa? Perché quel lepre, insomma, è diventato cuoco, piuttosto che, non so… velocista?

Perché appena Paolo e io abbiamo visto, questo lepre, abbiamo detto: “Ecco il signor Lepron”. E Paolo ha aggiunto: “Titolare dell’omonima zuppa.” Al che io gli ho chiesto: “Ma quale zuppa?” E lui risposto: “Ma quella della canzoncina: “La zup-pa l’è pron-ta. La zup-pa l’è pron-ta, ta-ta-ta-rat-tà!” Che era lo stupido motivetto che si cantava nelle caserme all’ora di pranzo. È così che Lepron è stato messo a cucinare zuppe. In effetti quando siamo insieme, specie a camminare, io e Paolo ci diciamo un sacco di stupidaggini.

Quando hai deciso di proporre a Mariachiara la tua storia, era così come la leggiamo o si trattava di un progetto divenuto poi storia in una danza a due?

No, era esattamente come lo si legge ora.

La mia prima recensione di un tuo libro su AtlantideKids è stata per Vorrei avere (https://atlantidekids.wordpress.com/2011/04/01/vorrei-avere/). Si tratta di poesia, e, per me che la amo molto, ricordo fu un incontro dolcissimo e sorprendente. Che differenza c’è tra lo scrivere in poesia e lo scrivere in prosa? Cosa fai con più piacere?

In generale, l’approccio alla scrittura è identico, non solo con prosa e poesia, ma anche quando scrivo recensioni o articoli. È una costruzione della scrittura e della struttura del discorso lenta e molto approfondita da una parte, e dall’altra frutto di scelte operate grazie anche a una presenza dell’intuizione che cerco di tenere sempre all’erta.

Non alla prima, ma alla seconda lettura, quella in cui i libri cominciano a diventare amici di chi li legge, e poi alla terza in cui si entra in confidenza e allora coi libri si comincia a parlare, come con un amico appunto, fuori dai denti, mi sono detta: ma che la zuppa del signor Lepron e la sua storia non siano metafora del mondo dell’editoria per l’infanzia di oggi? È un troppo vago peregrinare, il mio?

Guarda, ogni ipotesi da parte dei lettori è possibile. Certamente questa può essere presa come una storia che racconta come vanno le cose in molti momenti e occasioni della nostra vita, per come è organizzata, per il tipo di aspettative e bisogni che ci crea. Dopo aver fatto il diavolo a quattro per ottenere una cosa, a un certo punto scopriamo di desiderare tutt’altro. Naturalmente a questo ci si arriva solo attraverso l’esperienza, non è che puoi evitarlo. Ma accorgersi di poter fare a meno di tante cose è sempre un momento di sollievo e quindi di felicità.

Se dovessi scegliere tre parole da accostare alla letteratura per l’infanzia, quali sarebbero?

Appassionante, sorprendente, elegante.


La mostra e il laboratorio (laboratorio che si terrà il 3 febbraio alle 18,30) sono aperti a tutti, bambini, bambine e adulti curiosi. Ogni partecipante, dovrà portare con sé una lattina di lenticchie, fagioli, ceci, oppure 1,50 € per averne una dalla dispensa delle libraie.

Con l’acquisto del libro un poster in regalo.

la mostra è visitabile da sabato 3 febbraio (con inaugurazione alle 18,00) a sabato 2 marzo, al Giardino Incartato, Roma, via del Pigneto 303/C; orari: 10-13 e 16,30 – 19,30 dal lunedì al sabato; Ingresso libero. 

Il Maialibro torna a scaffale!

Poveri maiali! Sempre vituperati. Portati ad esempio di egoismo e cattivi comportamenti. Eppure, superato l’olezzo che spesso li avvolge, sono creature vivaci, allegre; mi dicono, capaci di grande fedeltà e amicizia. Questo i maiali veri. Poi ce ne sono altri, che, del tutto permeati dagli stereotipi di genere, lasciano che una donna si faccia carico di tutto il fardello che la gestione di una casa e di una famiglia possa comportare.

Il maialibro, Anthony Browne - 2013, Kalandraka
Il maialibro, Anthony Browne – 2013, Kalandraka

La Signora Maialozzi in casa svolge qualsiasi compito: cucina, lava, stira, rassetta, per poi uscire per andare a lavorare e, al ritorno, cucinare, lavare, rassettare. Giorno dopo giorno. Il volto della donna, che è anche la mamma di due bambini, si sforma, diviene un anonimo ovale, perde i propri tratti e la propria personalità, va via via disfacendosi, rischia di annullarsi.

Il marito e i figli dal canto loro danno tutto per scontato e nemmeno si accorgono del proprio egoismo, del loro assomigliare a dei maiali. Fino a quando la Signora Maialozzi si stanca e va via lasciando un biglietto: “Siete dei maiali.” Senza patemi, senza punti esclamativi. È un dato di fatto, e punto.

Il maialibro, Anthony Browne - 2013, Kalandraka
Il maialibro, Anthony Browne – 2013, Kalandraka

D’altra parte avvisaglie ce n’erano state sia della desolazione che avvolgeva la mamma, sia dell’attitudine porcina: sul pomello della porta spuntano narici e grugno. Il vaso da fiori ha un musone grigio/rosa stupito. Le maioliche ritraggono dei deliziosi maiali simmetrici. Persino le prese della corrente, le spille, li ricordano. E questo quando la mamma è ancora in casa a sfaccendare o appena andata via. Quando decide di non tornare la metamorfosi è completa e investe anche gli esseri animati (cane incluso). I tre porcelli, rimasti soli, si rivelano incapaci di badare a loro stessi e di avere cura della casa che diviene, giro pochi giorni, un porcile.

Il maialibro, Anthony Browne - 2013, Kalandraka
Il maialibro, Anthony Browne – 2013, Kalandraka

Non so se per fame, non so per arrendevolezza o per effettiva consapevolezza alla fine i tre si piegano alle condizioni materne: se vogliono che la mamma torni a casa devono collaborare. Tornata l’armonia anche la mamma può ritrovare la propria, riconquistando anche un volto ben definito e sorridente.

Il maialibro, Anthony Browne - 2013, Kalandraka
Il maialibro, Anthony Browne – 2013, Kalandraka

Le tavole illustrate dello stesso autore del testo, Anthony Browne, hanno un ritmo proprio che investe la narrazione testuale: giallo ocra quando la protagonista narrante è la madre, a sottolinearne solitudine e compostezza, colori brillanti e a tratti chiassosi, quando narrano del padre e dei figli. Sempre sorridenti le tre controparti mutano umore e tono quando la madre va via (allegorica anche la scomparsa della donna dal quadro con scena bucolica sul camino) per piombare in un buio triste e foriero di pessimi presagi (deliziosa l’ombra del lupo che si fa contorno netto sulla finestra). Quando la madre ritorna in scena agisce da luce, alba di un tempo nuovo, e da luce illumina tutto, inclusi i tre porcelli, restituendo loro un incarnato roseo affatto spento.

Il maialibro, Anthony Browne - 2013, Kalandraka
Il maialibro, Anthony Browne – 2013, Kalandraka

Un albo che consiglio vivamente del quale solo la tavola finale mi ha poco convinta: la mamma che finalmente può dedicarsi a faccende maschili (aggiustare la macchina) mi sembra un passo indietro, un vanificare il lavoro e i sacrifici fatti per annullare la distanza tra ruoli e generi sottolineando che ci sono cose prettamente maschili e prettamente femminili. Sebbene possa invece attestare esattamente il contrario e la mia possa essere un’impressione derivata dal felice effetto narrativo senza sbavature e inciampi cui tutto il resto del libro mi aveva abituata.

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Titolo: Il maialibro
Autore: Anthony Browne
Editore: Kalandraka
Dati: 2013, 40 pp., 16,00 €

Trovate questi libri tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma. 

di streghe, avventure e bimbi grandi quanto un cece

Il proprio destino nessuno sappia prima; sua è la mente più sgombera d’affanni. (Havamal)

Si apre con la citazione che ho scelto di riproporre incominciando a scriverne, il quinto libro della collana I Miniborei di Iperborea, “I figli del mastro vetraio”; e già racconta in quelle poche parole tutto quanto una fiaba possa contenere: ci sarà un destino che complicherà la vita dei protagonisti rendendola triste, affannosa. Un destino talmente brutto che sarebbe meglio evitarlo. Quindi ci sarà un accidenti che si affronterà con avventatezza, e almeno una circostanza in cui un aiutante, magico o no che sia, offrirà il proprio aiuto per dissipare il buio dell’orizzonte.

È una lunga fiaba complessa e ricca, ricca di dettagli, di magia, di meraviglia. Un racconto fiabesco che segue le tracce dei miti nordici (ho riconosciuto quello di Odino, per citare il più esplicito) e si tiene in equilibrio nella lotta esacerbata e necessaria all’avventura tra bene e male.

Vincitore del premio Andersen nel 1974, I figli del mastro vetraio è un classico moderno di una delle più grandi autrici di libri per bambini e per ragazzi dei nostri tempi, Maria Gripe.

È il punto di partenza perfetto per questo mio viaggio attraverso la fiaba classica tra gli scaffali delle librerie, perché questa, che è una lunga fiaba moderna recante in sé tutti gli elementi della classica cui si ispira, rispecchia appieno la direzione dell’editoria per l’infanzia negli ultimi anni. Un recupero pregevole delle fiabe classiche nelle loro versioni originali, o quanto più fedeli all’originale possibile, arricchite con tavole di illustratori contemporanei o da un lavoro di recupero di quelle dei grandi illustratori dei secoli scorsi. Con l’intento di riaprire alla fiaba il contesto che più le appartiene e che la nutre, quello della narrazione orale.

(Addio Biancaneve, Beatrice Alemagna, Topipittori)

La narrazione ad alta voce implica anche un passo in più nella danza della lettura, diviene un passo a tre, a volte a quattro, tra la fiaba, chi narra e chi ascolta, dando luogo a un rito, che contribuisce alla costituzione di una memoria, dell’anello di una catena, il primo, il gancio, che conduce sulla strada della narrazione, alle riletture, alle varianti.

Quello che ricordo io è mio nonno che metteva una manciata di ceci secchi sotto alla cenere del focolare, piuttosto vicino al carbone ardente ma abbastanza distante da esso da scongiurare il bruciarla. Lo ricordo perché quei ceci erano squisiti, croccanti e profumati e perché mentre io sgranocchiavo, nonno Nicola (che però si chiamava Umile) raccontava. E mi raccontava che quello che avevo appena mandato giù, sì, proprio quello, era Ciciariell’. Io ridevo, perché c’era da ridere a questa assurdità, considerato che Ciciariell’, lo sapevo bene, era un bambino, piccolo, sì, ma con mani e piedi, zazzera bruna sul capo, spirito fino e intraprendente.

Ed eccolo, Cecino, di nuovo tra le mie mani, a scaffale, per niente bruciacchiato ma ancora piuttosto fragrante e profumato, in una variante del racconto tradizionale narrato da Pitrè nelle Novelle toscane, edita da Kalandraka. Ugualmente buffa, ugualmente divertente.

Della fonte originale, che io colloco in un tempo non definito e attribuisco, altrettanto soggettivamente, ai cantastorie del focolare, conserva il ritmo, il fraseggiare cantilenante e ripetuto e, come ben sottolineato dall’editore, la struttura cumulativa, nel senso che le attribuisce Propp della reazione a catena che si conclude con qualche allegra catastrofe.

(Cecino, Olalla González, Marc Taeger – 2015 Kalandraka)

Cecino è la personificazione della fiaba popolare ridanciana e grottesca, quella che anche nei più timidi innesca risate grasse. La fiaba drammatica, invece, quella crudele, dell’ingiustizia, della vendetta, della rivalsa, dell’amore che tutto può e dimentica è Biancaneve; e Topipittori, seminando ancora nel solco della fiaba classica (il fiabesco nel catalogo dei Topipittori è nutrito e prezioso) ha dato alle stampe pochi mesi fa una rilettura, e va da sé riscrittura, della celebre fiaba, pervadendo ogni pagina, nelle pennellate come nelle parole, di quello che è sempre stato il suo fulcro, il perno attorno cui tutte le vicende girano: il dolore. Un dolore che si accoglie, percepisce, rigetta, applica e che rende la fiaba di nuovo adatta a una voce adulta, perché possa raccontarla, tramandarla, restituirle il proprio contesto. (Beatrice Alemagna, Addio Biancaneve).

È il mondo dei grandi che entra a passi timidi, a volte sfrontati ma con meno eleganza, in quello dei bambini, percorrendone i sentieri così come per la prima fiaba, quella del focolare, da grande a bambino, assieme.

(questo articolo è stato pubblicato  su Alir il Magazine di marzo 2022)

Adelaide, la strana creatura del Signor Urgerer

Non appena ho incominciato a leggere la storia di Adelaide, cangurina alata, ho subito pensato a The Artist di Michel Hazanavicius. Qual è il legame tra un albo illustrato per bambini del 1959 e un film del 2012? Beh, la storia di Adelaide procede proprio come se la cangurina in questione fosse una star di Hollywood e la pellicola delle sue avventure virato seppia scorre proprio di pagina in pagina come se si trattasse dei fotogrammi della pellicola biografica e spettacolare della vita di una star del cinema o di un eroico aviatore dall’aura magica alla Saint-Exupéry.

Adelaide non è solo alata, è anche intraprendente e affascinata dal volo, quindi non esita a salutare mamma e papà e spiccarlo alla ricerca di avventura. Si aggrega a un aviatore e assieme visitano paesi esotici; poi approda a Parigi e decide di stabilirsi lì. Per un caso fortuito, incontra un gentile signore che le mostra la città, e lo fa così, come sempre avvengono le cose nelle storie, senza troppi preamboli e senza troppe ragioni. Monsieur Murius ricorda il Signor Racine di matrice sempre ungereriana, rimane intenerito e subito s’affeziona ad Adelaide e alle sue belle ali. Insieme visitano Parigi, e Adelaide scopre come siano numerose le creature alate che, esattamente come lei, hanno le ali sebbene non siano uccelli. La Nike di Samotracia, i Tori alati di Khorsabad al Louvre, i gargoyle e gli angeli di Notre Dame, inquietanti i primi, paciosi gli altri.


Adelaide si sente creatura meno sola e si crogiola nell’idea che le ali rendano così originali da far  meritare monumenti splendidi a chi le abbia; ormai paga dell’essere se stessa, le manca solo l’amore di un canguro come lei, giacché d’amore verso gli altri e di generosità, il suo cuore da cangurina era ricolmo. Adelaide non esita a mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di due bimbi da un incendio e proprio quest’atto eroico le varrà l’incontro tanto atteso con il canguro della sua vita, Leon, con il quale darà vita alla famiglia di canguri più straordinaria mai vista al mondo.

Essere differenti può rivelarsi un dono e Adelaide, che la sua differenza l’abbraccia e adora, ce lo mostra con dolcezza. Il tratto di Ungerer semplice ed elegante è terso proprio come se attingesse all’aria nitida e alla brezza fresca in cui si libra Adelaide: l’acquerello si stende con morbidezza e si compiace di tinte mai urlate, piuttosto tenui: seppia, ocra, azzurro carta da zucchero, grigio e tortora conferiscono alle tavole una tale densità da non far sentire mai la mancanza dei colori più accesi, nemmeno il giallo di quel sole che, tra il perplesso e lo stupefatto, assiste dalla prima fila al primo volo di Adelaide.


Adelaide, di Tomi Ungerer, Lupoguido


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Il ragazzo fantasma

Edito per la prima volta nel 2000 (e poi tradotto da Chiara Gandolfi e pubblicato in Italia da bohem press nel 2011 con le illustrazioni di Federico Appel), “Il ragazzo fantasma” è un romanzo complesso che comprende in sé la tensione sottile dell’horror, la delicatezza della meditazione sul senso di sé e della vita (e quindi della morte), la difficile acquisizione della consapevolezza della rilevanza delle proprie azioni.

David è un ragazzo di 12 anni, basso per esserlo e per questo bullizzato a scuola. I genitori di David sono separati e la madre vive proprio in un altro Paese, ma il padre, Harry, riservato e mite, è premuroso e accogliente. Nonostante ciò o a causa di tutto ciò David col padre parla poco, per niente. Preferisce covare in sé le proprie insicurezze e lasciarle fluire in idee e azioni del tutto controproducenti nell’ottica del trovare sfogo o serenità, ma piuttosto rilevanti, sebbene drastiche, in quanto ad autonomia e crescita.

Il ragazzo fantasma, di Melvinn Burgess, ill. di Federico Appel - 2011, Bohem Press
Il ragazzo fantasma, di Melvinn Burgess, ill. di Federico Appel – 2011, Bohem Press

David aveva paura, una paura folle! Ma su David la paura aveva l’unico effetto di dargli uno stimolo in più

Uno stimolo in più, una ragione assieme alle altre per cedere a quella voce irresistibile che spinge David a intrufolarsi nel condotto di aerazione. Spiare gli altri e perpetrare piccole vendette ai danni di persone innocenti sembra essere per David una buona risposta ai soprusi che subisce quotidianamente. Ma tutto si complica e assume contorni inquietanti quando trova un compagno di scorribande profondamente infuriato, evanescente: lo spettro di un ragazzo carico di rabbia e insoddisfazione.

Chi è questo fantasma, o meglio, chi era? Perché è così ostinatamente crudele col mite vecchietto ultranovantenne dell’appartamento del quinto piano?

David si lascia trascinare in un crescendo di violenza e vandalismo che molto incidono sulla salute, già molto precaria del signor Alveston, fino a ficcarlo in un guaio che non vale assolutamente l’amicizia, apparentemente incredibile, con un fantasma.

David e il ragazzo fantasma distruggono l’appartamento del vecchio; per il fantasma, ovviamente, nessuna conseguenza, per David un po’ per costrizione (il padre gli impone di fare amicizia con lui), un po’ per scontare la pena inflittagli dal giudice, comincia un periodo di crescita inatteso: si sorprende a stringere con il signor Alveston un’amicizia profonda e sincera che condurrà entrambi verso una maturazione; verso loro stessi, con consapevolezza.

Lo spazio dietro al muro, però, continua a chiamare. Chiama David, chiama il signor Alveston.

Non ci andrò, – promise se stesso.Poi lo disse ad alta voce: – Non ci andrò! – Gli rispose solo il silenzio, ma un silenzio con dentro qualcuno.

Non posso andare oltre senza svelare il nodo e la chiave di questo che è un romanzo in cui la tensione e il mistero sono prevalenti, ma posso dirvi senza dubbio che Burgess è magistrale nel rendere entrambi profondi, costellando la narrazione di elementi introspettivi veramente eccellenti. Quello di Burgess è, come sempre, uno sguardo attento e premuroso sull’adolescenza, e le sue dolorose contingenze sociali e interiori. Qui l’adolescenza si mescola con la vecchiaia, tingendo il tutto di un’atmosfera incalzante, per lo scorrere del tempo presente, e soffusa, per il ricordo di quello passato. Un romanzo la cui lettura consiglio dai 9 anni in su.

Il ragazzo fantasma h230Titolo: Il ragazzo fantasma
Autore: Melvin Burgess (ill. in bianco e nero di Federico Appel), trad. Chiara Gandolfi
Editore: Bohem Press
Dati: 2011, 184 pp., 16,50Lo trovi sugli scaffali del Giardino Incartato