Dell’accordo tra l’uomo e la natura resta l’immagine struggente di una casa in rovina sull’altura

La casa sull'atura di Simone Massi, Nino De vita - 2011 Orecchio acerbo
La casa sull’altura di Simone Massi, Nino De vita – 2011 Orecchio acerbo

La casa sull’altura è abbandonata. Da lontano non si direbbe. Poi, a guardar bene, ci si accorge che i campi sono ormai a saggina e gli unici frutti che potrebbero essere raccolti sono i fichi d’india.

Siamo in Sicilia? Potrebbe darsi da come sembra riluca il sole sul tratto in bianco e nero di Simone Massi. Solo certi raggi di sole sono capaci di farlo, come lo farebbero sulla striatura argentea di una lumaca.

Ma la campagna è campagna ovunque, in Sicilia come nelle Marche, in Calabria come in Sardegna, in Italia come in Russia (e non a caso il libro è già stato edito in Russia, cercato e accolto con grande passione). Non dovevo leggere la postfazione di Goffredo Fofi, non dovevo farlo perché adesso non posso fare a meno di condividere il suo punto di vista e di scoprirlo assolutamente in linea con il mio. Cita Pasolini, Silone, cita Levi e Kapuscinski e radica la sua lettura nel principio dell’accordo perduto e tradito tra uomo e natura.

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La casa sull’altura di Simone Massi, Nino De vita – 2011 Orecchio acerbo

La casa dell’altura ha un tetto di legno e di tegole, una stanza, una cucina in cui troneggia la nicchia con la Madonna, luogo del raccoglimento, dei numi tutelari, della preghiera. Il letto con la testata di ferro battuto, le sedie impagliate sistemate dallo scorrere del tempo e dalle folate di vento come se ci fosse un disegno, vicino alla finestra e alla luce. Immagino i bimbi, ginocchia sull’impagliatura, gomiti sul davanzale, occhi alla valle in attesa del ritorno dei genitori.

La casa sull’altura è abbandonata, i proprietari si sono trasferiti in città, ma qualcuno vi trova ancora rifugio e conforto. Gli animali, molti solo di passaggio, alcuni per tutto l’anno, come i ragni, vivono lì. Un giorno arriva di corsa, segnando l’erba del passo veloce, un bambino; e gli animali sperano che sia arrivato per restare. La loro sintonia dura due settimane, poi il bimbo, improvvisamente, così come era arrivato, torna sui suoi passi, per non fare più ritorno.

Le tavole si leggono assieme ma potrebbero raccontare ciascuna la propria storia. Le parole si legano alle illustrazioni e ritmicamente le cantano. Incontrare il siciliano dei versi di De Vita in chiusura, poi, è un ritorno, un ritorno proprio a quei sentimenti universali che in ogni campagna imperano.

La casa sull'atura di Simone Massi, Nino De vita - 2011 Orecchio acerbo
La casa sull’altura di Simone Massi, Nino De vita – 2011 Orecchio acerbo

Ho letto la postfazione.
Avrei dovuto abbandonarmi allo sgomento profondo che mi ha attanagliato lo stomaco dinanzi alla forza struggente della disperazione fanciulla. La disperazione di un bambino è simile solo ad altri due tipi di disperazione: quella dei vecchi e quella degli animali. Gli occhi si riempiono di cose mai o già viste; si riempiono di rimpianti e solitudine, smarrimento e senso di inadeguatezza, e parlano ma in un linguaggio a noi esseri del limbo, in cui la fanciullezza è distante e la vecchiaia altrettanto, assolutamente incomprensibile. Laddove degli animali comprendono, noi piangeremmo; laddove degli animali si entusiasmano, noi avremmo il bisogno di organizzare e dare forma alle cose e ai propositi. Laddove gli animali si lasciano andare al senso (profondo) e distruttivo della disperazione, noi cercheremmo la mediazione e di tutto questo resteremmo feriti, ripiegati su noi stessi, sradicati. Foglie accartocciate sul pavimento ormai in rovina di una vecchia casa di campagna.

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Titolo: La casa sull’altura
Autori: Nino De Vita e Simone Massi (ill.)
Editore: Orecchio acerbo
Dati: 2011, 68 pp., 16,50 €

Trovate questo libro tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma. 

L’uomo dei palloncini; quello giusto per ogni bambino

L'uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli, Simone Rea - Topipittori, 2014
L’uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli, Simone Rea – Topipittori, 2023

Talvolta il presente si colora di persone che divengono personaggi, di uomini che sono talmente buffi da ricordarci Giufà, di donne schizzinose che diventano principesse sul pisello, di bambini pestiferi che apostrofiamo Gian Burrasca. Altre volte capita l’inverso, e il processo è ben più magico. Esula dalla deduzione per entrare nel campo minato dell’astrazione, laddove si può intraprendere e compiere il percorso creativo e dar luogo alla meraviglia oppure perdersi e ritrovarsi intricati nella resa banale di ciò che già è o è già stato.

L’uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli lo racconta, è un uomo che in una precisa fiera di paese, in un preciso momento e in un preciso luogo smette di essere quell’uomo per divenire il poetico ed eroico protagonista di una storia. Per dare il titolo alla storia che è la sua.

L'uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli, Simone Rea - Topipittori, 2014
L’uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli, Simone Rea – Topipittori, 2023

Rappresenta e racconta tutti gli uomini dei palloncini? Direi di no. Molti, devo dire tutti quelli in cui mi sono imbattuta in una militanza di anni tra parchi, fiere, giardini, sono piuttosto antipatici, insistenti, invadenti; vendono a caro prezzo le solite immagini chiassose, non sono affatto capaci di acchiappare l’aria, di renderla forma, di renderla unica. Essi risplendono di luce riflessa e la luce (quella sì, ne sono stata investita anch’io) si genera dagli occhi pieni e baluginanti dei bimbi che, tutti, a prescindere dall’età, dai palloncini sono rapiti, inebriati. Ecco, l’uomo i cui palloncini popolano queste splendide pagine è magico, perché è capace di regalare ai bimbi una magia che essi stessi hanno inconsapevolmente creato, che si portano a spasso, che tiene loro compagnia.

Nel leggere un albo quello che più mi interessa a una prima lettura è cogliere l’equilibrio tra testo e immagine; valutare il loro rapporto e soppesarne il ritmo. Ecco, qui è perfetto, l’equilibrio; lieve, il ritmo; elettivo, il rapporto.

Una frase tra tutte (tra le parole lette nei mesi, non solo tra quelle incontrate in questa narrazione) mi ha affascinata, per la sua cadenza perfetta e circolare, che narra compiendo evoluzioni e al contempo le conclude nel ritmo lineare del fatto narrato. È perfetta.

 L’uomo dei palloncini è un domatore d’aria. Gli basta un gesto per portare fino a te il suo gregge meraviglioso. Abbassarlo al punto da farti avvicinare. Avvicinarlo al punto di fartelo toccare, e forse da farti entrare e farti perdere e salire, salire, salire.

L’uomo dei palloncini domina l’aria più leggera dell’aria; la imbriglia e le dà forma; la forma più adatta a ciascun bambino. Per una bimba una stella, per due gemelli “in silenziosa pace” una fiera selvaggia e un fiore.

L'uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli, Simone Rea - Topipittori, 2014
L’uomo dei palloncini, Giovanna Zoboli, Simone Rea – Topipittori, 2014

Poi a sera va via, illuminando la strada con i fanali del suo furgone di zucchero con al fianco la ragazza tutta bianca, forse di torrone, forse di glassa, sua compagna e anima gemella; verso un’altra fiera, un’altra città.

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Titolo: L’uomo dei palloncini
Autore: Giovanna Zoboli, Simone Rea
Editore: Topipittori
Dati: 2014, 32 pp., 20,00 €

Nuova edizione, 2023, € 10,00

Trovate questo libri tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma. Oppure, se non siete a Roma potete chiederci di spedire a casa vostra, lo faremo con molto piacere ricorrendo a Libri da asporto.

Il giorno in cui la talpa (quasi) vinse la lotteria

Il contesto è bucolico. Cespugli, tane, alberi, erba. Sembra quasi di percepire il profumo della terra smossa dalle zampette di TaLpa, l’odore del fango in cui si crogiola il maiale. Fango incluso, è tutto incantevole.

Al contesto boschivo se ne contrappone un altro fatto di pennini, francobolli, tazze da te e desiderata elettronici, perché nonostante siano immersi nella natura e non vestano panni umani, tutti gli animali, che siano essi della fattoria o del bosco, vivono al passo coi tempi, in tane organizzate e in un sistema di socialità familiare e consueto che rispecchia quello di chi legge e che avvicina in maniera naturale il lettore al quotidiano di chi, invece, popola le pagine, affascinandolo e meravigliandolo al contempo.

Ora, c’è da dire che io amo moltissimo i racconti illustrati, specie se sono abbastanza corposi da consentire il ripetersi di sorrisi o tensioni o brividi. Qui si tratta di sorrisi, a iosa. Il ritmo, quindi, e l’impostazione, il tono, mi hanno conquistata. La freschezza del lessico e delle illustrazioni in bianco e nero vanno a braccetto con un sapore brioso e naif che, come dicevo, tende a muovere le labbra verso sorrisi di compiaciuta complicità con i protagonisti, anche quelli che tendenzialmente per la loro nomea e per certe naturali inclinazioni, potremmo annoverare tra le fila degli antagonisti.

E si comincia a sorridere da quando il maiale bussa al monticciolo di terra che fa da porta alla tana di Talpa e lei, cieca come una talpa, scambia il suo grugno per qualcosa d’altro, liquidando il venditore di prese elettriche, e da lì in poi in un turbinio di bricconerie, fraintendimenti, slanci di generosità, e ancora tassi truffaldini, ma anche TaPpe truffaldine, e maiali furbacchioni (o dolcemente, teneramente, sofficemente naif?) la storia si dipana, con qualche garbuglio, a partire da un biglietto vincente della lotteria. 100.000. Diamine, son tanti! Meglio dividerli tra tutti gli animali con lo strumento democratico per eccellenza, il voto. E quindi si incarica il topo di spargere la notizia e l’assemblea si tiene, con tanto di belvale, ehm… verbale.

Proprio durante l’assemblea i personaggi prendono corpo e assumono contorni definiti, si impara a riconoscerli, con qualcosa ci sorprendono, con altro ci accolgono nel contesto del familiare. Dei tassi, lo sappiamo bene da quello di cui ancora si parla a Bull Banks, non c’è da fidarsi troppo, così come della puzzola, che di pungente non ha solo l’odore. Ma certe zampette furbe e ingorde sono necessarie a tutte le storie, perché prendano una consistenza forte, rotonda, profumata.

L’attenzione ai dettagli e la cura editoriale tenera e attenta ne fanno un libro delizioso, quasi quanto la tondissima, e immaginiamo rosa, generosità del maiale.

Il giorno in cui la talpa (quasi) vinse la lotteria, di Kurt Bracharz (Autore), Tatjana Hauptmann (Autore), Valentina Freschi (Traduttore) – Lupoguido 2023

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Una banda popolare, una fiaba di rivalsa. Lavoro e lotta di classe ne I musicanti di Brema

Sposo l’idea di Marx e ritengo che dietro ogni sostanziale cambiamento ci sia una lunga lotta di classe, laddove sempre è vivo il conflitto, sociologicamente inteso, tra operai e capitalisti.

È motore di azione e pensiero sin dall’Ottocento e io ne trovo traccia, solco di mani contadine, molto consistente, anche nelle fiabe classiche.

Molte fiabe, che non abbiano come motore la scoperta di sé, hanno come spinta propulsiva la rivalsa sociale e raccontano di un’evoluzione in positivo in cui i rapporti di potere si ribaltano grazie all’intraprendenza eroica dei personaggi protagonisti, per giungere allo scambio totale delle parti, in cui il mugnaio divenga marchese, la servetta regina, la guardiana di oche principessa.

Nel mezzo si nutrono di magia, passione, colpi di scena e aiutanti magici, ma al principio, sempre, c’è uno sfruttato e uno sfruttatore, una condizione ingiusta, una povertà estrema e di contro una superba e prevaricante ricchezza.

Talvolta lo sguattero divenuto principe dimentica il dolore dell’essere sfruttato e ripropone sul nuovo anello debole della catena lo stesso modello subìto sulla propria pelle (e allora interviene il destino a riportare l’equilibrio tra ingiustizia e giustizia), in altre occasioni la povera mendicante si mostra munifica e non si cura di allargare la forbice sociale, punendo lo sfruttatore in una condizione di sudditanza, bensì si mostra forte della propria, conquistata, posizione sociale e governa con giustizia e lungimiranza.

Altre volte, infine, è solo conoscendo la sofferenza di un contesto del tutto estraneo a quello consueto che si può riconquistare la posizione sociale acquisita per nascita e poi persa. In queste occasioni, non rare, in cui il re di antica stirpe cade in rovina a causa della propria superbia e del proprio ottuso classismo, è grazie all’intervento di qualche fata saggia che “il ricco” conosce la durezza della vita di stenti e lavoro e si redime verso una visone di eguaglianza e parità di diritti.

The Brothers Grimm, “The Bremen Town Musicians”, di Lisbeth Zwerger, 2007 Miniedition

La fiaba si nutre di tipi e archetipi ma li sublima. Attinge a piene mani dalla realtà, ritrae uomini e donne, spesso bambine e bambini, nelle loro crude sembianze, lacere, sporche e smunte, lo fa scendendo nei dettagli più dolorosi tanto che a leggere sembra di sentire i morsi della fame, i brividi di freddo, la pelle lacerata dalla terra, dal ferro, dai bastoni degli spazzoloni. Eppure tutta questa realtà dà luogo a tipi universali, a volte a un servo a volte un contadino, a volte un cacciatore, a volte un cuoco, e di volta in volta li sublima in sembianti interscambiabili capaci di prendere in mano la propria esistenza dandole una svolta radicale, senza, il più delle volte, avere alcuna certezza del proprio futuro.

E per di qui si giunge a I musicanti di Brema, che è quanto di più vicino a una favola si possa cercare in una fiaba, laddove gli animali ragionano all’uso umano, in cui suonano strumenti, in cui sono dotati di parola. Sono quattro. Sono quattro tipi fiabeschi, sono persone. Quattro sfruttati, quattro non più utili agli ingranaggi della macchina capitalista. Non sono più capaci di sostenere i ritmi di una fatica dura, di un lavoro imposto, che del lavoro ha solo la forma e non la sostanza, che non concorre a migliorare la società ma solo l’interesse del singolo e che, soprattutto, non prevede un compenso che non sia la possibilità di sopravvivere.

Dal canto suo, il padrone non conosce la gratitudine, non guarda al passato, piuttosto si concentra sul proprio futuro prossimo e su quello che da quel che resta dei suoi lavoratori potrebbe ricavare. Persino le pelli, le carcasse, possono fruttargli altro denaro, oppure risparmio, liberandosi dal peso di nutrirli, per quanto modesto. La soluzione per sfruttare fino all’ultimo istante questi quattro, volenterosi, lavoratori è sopprimerli.

E qui entra nella trama la rivalsa e la nutre, le dà lo spago che il piegarsi al volere dei potenti non avrebbe generato.

Il primo dei quattro, l’asino, intuisce la brutta fine cui è stato da altri destinato e attua una ribellione pacifica che non implica una vendetta, piuttosto mette in campo una strategia d’azione lucida e intelligente, oltre che un sogno.

“I musicanti di Brema”, Katrin Stangl, da un racconto popolare, 2009 Maurizio Corraini

Ne I Musicanti di Brema il rapporto, e la conseguente lotta di classe, è propriamente tra proletariato (i quattro musicanti) e borghesia (i quattro padroni) ma non si nutre di antagonismo, piuttosto dell’anelito alla libertà di chi ha provato la coercizione da chi l’ha esercitata con violenza e con  l’avallo della legge, la legge sociale, in questo caso.

I poveri nelle fiabe non hanno scampo. Non hanno nulla a cui appellarsi se non il buon cuore dei padroni. Il buon cuore è accezione ricorrente nel lessico fiabesco atta a definire un uomo o una donna di potere che attua nei confronti dei suoi sottoposti un comportamento socialmente decente. Buon cuore che può facilmente ingrigirsi, indurirsi per capriccio, per dimenticanza, per egoismo. I poveri, dunque, sono in balìa dei moti d’animo del singolo, e si muovono in una società che ha tutto l’interesse di restare immobile e identica a sé stessa. Quindi ingiusta.

I quattro lavoratori, consolidato sulle stesse basi e sullo stesso interesse un piccolo collettivo di esseri pensanti e ribelli, cercano di creare uno strappo nell’ordito costituito:  si uniscono, formano un gruppo, comprendendo come assieme abbiano più possibilità di affermare le proprie ragioni, essere incisivi all’interno del proprio contesto rurale, urlare, manifestando a viva voce, la propria presa di coscienza.

Gerda Muller, “Les quatre musiciens de Brême”, L’école des Loisirs, 2014

La fiaba trascritta dai fratelli Grimm è più che nota, per ripercorrerne le tappe verso Brema camminerò sul sentiero dell’edizione di Orecchio acerbo, tradotta da Anita Raja e illustrata da Claudia Palmarucci.

Un vecchio asino che per il proprio padrone non valeva più il fieno che mangiava, un Can-Da-Presa col fiato corto non più buono per la caccia che il proprio padrone voleva ammazzare di botte, un gatto Leccabaffi dai denti spuntati non più abile nel cacciare i topi che la padrona voleva annegare e un gallo Crestarossa buono, ottimo, per fare il brodo. I primi tre hanno lavorato duramente per i propri padroni, l’ultimo riconosce il valore della propria vita a prescindere dai desideri e dalle necessità dei più forti.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015

Assieme condividono l’idea, che è una presa di coscienza, del dover sfuggire a una condizione in cui il sopruso è stato a lungo perpetrato a loro spese e rischia di concludersi in quello supremo. Assieme partono per Brema in una marcia che ha tutto il sapore della ricerca della libertà, dell’affermazione di sé e del proprio ruolo all’interno della società che li ignora e sfrutta; opponendosi al volere di un padrone che hanno, fino a  quel momento e senza avere nulla in cambio, contribuito a far prosperare.

L’asino con coppola e martello, il gallo con in mano una chiave inglese, il gatto con un tascapane alla vita adatto a contenere e poi spargere sementi, il cane con un bastone per sostenere un lungo cammino e badare alle greggi. Strumenti da lavoro operaio che divengono strumenti portatori del sogno, dei desideri, strumenti musicali. E mentre s’avviano, in fila indiana, dei pesci si mostrano a pelo d’acqua come in ascolto di una predica. Ho visto in essi una traccia agiografica, memore di quel santo (Sant’Antonio di Padova, predica ai Pesci) che ad essi aveva spiegato il valore divino della libertà quando gli uomini si erano mostrati sordi alle sue parole.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015

Nella notte trovano rifugio in un bosco, abbastanza distanti dai luoghi da cui fuggono ma ancora distanti da Brema. Il bosco è buio, fitto, del tutto estraneo. Male alloggiati, i quattro animali scorgono una luce e verso di essa riprendono il cammino; dietro di essi una Fiumana di persone s’accoda in massa verso quella luce, alba del sole dell’avvenire, segno di un valore universale del soggetto sociale, segno del valore universale della libertà.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015

Di antieroi ce n’erano già stati dunque tra le prime pagine di questa fiaba, sebbene mediocri nella loro grettezza da padroni, personificazione al maschile e al femminile della borghesia ingerente sul proletariato. Quelli cui i quattro musicanti operai si trovano di fronte, raggiunta l’agognata fonte di luce, sono invece briganti. Briganti che non solo godono del frutto del lavoro altrui ma l’hanno con tutta probabilità rubato a chi, a sua volta, l’aveva accumulato con la prevaricazione e la violenza. La Palmarucci sceglie di ritrarli ben vestiti, compiti ed eleganti. Sono briganti perbene, così tanto ben vestiti e così tanto per bene da ricordare molto naturalmente i briganti del nostro tempo. I briganti sono alle prese con un banchetto, una festa, e sono in tanti. Come potrebbero gli eroi male assortiti, anziani e deboli fronteggiare quell’orda così ben nutrita? “Uniti i deboli diventano forti” hanno scritto Jacob e Wilhelm, e questo principio è valido nella Storia così come nella tradizione fiabesca, così come in quei miti antichi e classici in cui affonda la radice comune di tutte le fiabe europee.

E dunque è la volta della celebre torre: il cane si mette sulla groppa dell’asino e il gatto monta su quella del cane. Il gallo infine vola in cima a tutti e assieme, all’unisono, si esprimono con tutta la voce in loro possesso. L’urlo che ne consegue è così improvviso e sconquassante da disperdere i briganti in preda al terrore.

Illustrazione di Ofra Amit da “The Musicians of Bremen”, in “A Wolf, a Princess and Seven Dwarves”, Kinneret Books

I musicanti suonano strumenti molto accordati alla ricerca di una musica comune e popolare. Liberi si esprimono. Unendo le forze, e scaltramente, si appropriano di quello che, a ben guardare e andando indietro nella produzione del capitale è con tutta probabilità il frutto del loro lavoro, laddove con ‘loro’ si ritorna al tipo fiabesco del lavoratore rispondente alle caratteristiche che ne fanno un personaggio universale il cui destino si intreccia strettamente a quello della società in cui si muove, per fortuna, intraprendenza, disgrazia, coraggio, magia. È perfino magica la potenza con la quale esprimono il loro esserci, assieme danno luogo a una voce inattesa, sorprendente, che afferra gli animi dei gretti, li scuote e confonde, tanto da dar loro sembianze mostruose, atterrendoli: chi può mai mostrarsi così potente e terrificante se non un essere magico, una strega? Non certo quattro vecchi animali lavoratori. È qui la forza della rivalsa: sorprende, lascia attoniti.

Illustrazione di Katrin Stangl da “I musicanti di Brema”, da un racconto popolare, Maurizio Corraini, 2009

Con la conquista di un proprio luogo e di un proprio spazio si conclude lietamente la fiaba. E a chi per ultimo l’ha raccontata – ancor la bocca non s’è raffreddataCosì si chiude la fiaba dei fratelli Grimm. Si tratta di una chiusa classica che fa riferimento ai cantastorie della tradizione orale germanica, e implica la volontà di sottolineare quanto spesso questa storia sia stata raccontata e da quanti diversi autori. Ma quello che voglio qui sottolineare è che queste fiabe nei decenni, nei secoli, sono state fiabe da focolare, raccontate nelle piazze dei villaggi o tra l’erba dei campi da voci contadine. Il tipo fiabesco non è solo quindi protagonista delle fiabe ma se ne fa portavoce attivo, cantastorie, raccontando della ribellione dei sottomessi e degli sfruttati e auspicando, facendolo, la propria.

Illustrazione di Claudia Palmarucci da “I musicanti di Brema”, Orecchio acerbo, 2015

Questo articolo è stato pubblicato in origine su Libri Calzelunghe, lo trovate a questo indirizzo

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Una miniera chiamata Speranza

Mio padre il grande pirata è uno dei pochi libri editi da Orecchio acerbo che non ho recensito non appena ricevuto. Si tratta anche del rapporto che tra i libri e i lettori si crea. A volte diventa troppo partecipe, a volte va a suonare corde scordate e la melodia che ne nasce è confusa, inciampa e inciampando cade; fino a quando non trova un appiglio cui aggrapparsi con uno scatto di braccia, un colpo di reni. E quell’appiglio per me, oggi, è la festa del papà; ché come tutte le feste calendarizzate un po’ mi sta stretta e un po’ non le resisto. In effetti la celebrazione corale è una scusa. L’appiglio vero è la sostanza, è il padre.

Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì - 2013 Orecchio acerbo
Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì – 2013 Orecchio acerbo

Del mio per esempio conservo un album della memoria complesso e fitto, minuziosamente annotato; un album fatto di immagini e ricordi. Una delle immagini più nitide lo ritrae sdraiato sul divano con un braccio penzoloni e l’altro ripiegato sotto la testa, gli occhi chiusi e sugli occhi delle fette di patate. Perché mio padre piangeva polvere di ferro. E mio padre ha paura delle medicine, ma non dei tuberi. Mio padre non si lamentava. Poi il bruciore passava. Quell’immagine adesso è memoria, allora era fonte di avventure memorabili raccontate ad occhi chiusi, sdraiati sul divano col braccio penzoloni. Scale saldate gradino per gradino sulle cupole delle chiese, sotto alla pioggia, in balia del vento; scalino per scalino da terra fino al cielo per suonare le campane, per esempio.

Mio padre quando io ero bambina e lui era giovane faceva il fabbro ferraio, ma io lo immaginavo eroico e lui non faceva nulla per farmi credere il contrario. Per questo mio padre eroe, questo albo era rimasto lettura intima e commossa. Fino ad ora, naturalmente.

Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì - 2013 Orecchio acerbo
Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì – 2013 Orecchio acerbo

Davide Calì e Maurizio A.C. Quarello insieme per 48 pagine tra le quali nessuna inciampa sull’accidentato terreno del patetismo. C’è un bimbo che è un uomo che racconta del padre che era un pirata, dritto come un fuso su una spiaggia, le guance inondate di luce; sulle spalle un mantello di sole. Stivali alti, cappello e bandana. Manca un pappagallo, in compenso c’è una pala per scavare alla ricerca di tesori. C’è un uomo che racconta in un mise en abyme, che scivola via leggero, del Tatuato, del Barbuto, di Centesimo (eccolo il pappagallo!) che parlava al posto del suo padrone che invece non parlava mai. C’è una nave, una nave chiamata Speranza che di speranza è una miniera; speranza di tornare a casa.

L’uomo che era un bambino viveva di racconti straordinari e collezionava i tesori che il padre, che era un pirata, gli riportava ogni volta dalle sue avventure, che duravano un anno intero. Un paguro, una pipa, un dente di squalo, una conchiglia. E infine una bandiera, una originale bandiera pirata. Fino a quando per un incidente il pirata morì e al suo posto restò il padre minatore. Nel momento crudele in cui si infrangono i sogni, in quel momento crudele, non c’è spazio per la comprensione e poco respiro per il perdono. “Avevo trovato un altro papà. Un papà coraggioso che scavava sotto terra, al buio e senza aria, ma che raccontava bugie. E non sapevo se gli avrei voluto bene”.

Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì - 2013 Orecchio acerbo
Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì – 2013 Orecchio acerbo

Questa è una storia socialista. È una Storia in cui la tenerezza si insinua tra le pieghe della memoria ma non ha esitazioni a parlar chiaro nel presente. Che fa luce e dissipa tra storia e realtà e soffre, e soffrendo cresce e infine scopre che la bandiera della pirateria può sventolare sulle aste di poppa delle navi più ardite e che quelle navi possono farsi miniera, officina, fucina e campo.

Le tavole di Quarello restituiscono fotogrammi dinamici che si alternano a momenti narrativi statici, quasi didascalici che, di nuovo, lasciano il passo a ritratti che sono come figurine nelle mani di un bambino: il Tatuato, eccolo, ce l’ho, Salsiccia, no… è questo? Mi manca. Una galleria di racconti personali e intensi, minuziosi e profondi con cambi di prospettiva repentini che danzano col testo come in balia delle onde e mai scivolano, e se scivolano s’aggrappano con una virata decisa alla Speranza.

Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì - 2013 Orecchio acerbo
Mio padre il grande pirata di Quarello, Calì – 2013 Orecchio acerbo

151_Padre_pirataTitolo: Mio padre il grande pirata
Autori: Davide Calì, Maurizio A.C. Quarello
Editore: Orecchio acerbo
Dati: 2013, 48 pp., 16,00 €

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Alle radici della meraviglia

Quello che accomuna i tre saggi per adulti, considerati in questo breve spazio è il punto di partenza: in momenti e contesti del tutto diversi, vale a dire la fiaba, l’insegnamento e il teatro, il presupposto è lo stesso, considerare l’argomento di discussione senza sconfinare in altri campi di indagine e attenzione. Rimanendo piuttosto nei campi di analisi e racconto. La fiaba è quindi considerata nel suo essere narrazione, spesso piacere narrativo, l’insegnamento è messo in stretta relazione a indagine e osservazione tra e con i ragazzi e le ragazze, il teatro come esperienza concreta. Sembrerebbe che io stia ribadendo l’ovvio. No, ovvio non è. Sembrerebbe che io stia ribadendo l’ovvio. No, ovvio non è. In libreria abbiamo tre scaffali in cui, spesso di piatto, metto in bella mostra i saggi attorno alla letteratura per l’infanzia e all’infanzia stessa. Da poco abbiamo tre saggi in più da mettere nello spazio che per il suo essere prezioso abbiamo chiamato: “alla radice della meraviglia”.

La fiaba come racconto di Beatrice Solinas Donghi pubblicato da Topipittori nella collana “I topi saggi” raccoglie le “ragioni del racconto” fiabesco lungo un arco cronologico molto ampio (dal 1967 al 1994). In esse, da ricercarsi nel fiabesco stesso, risiedono l’invenzione letteraria come lo spirito critico, il piacere del narrare come dell’ascolto, osservazioni nel merito degli intrecci, il rapporto tra fiaba e tradizione popolare; saggi e articoli che restituiscono con molta chiarezza, e anche con una certa fascinazione che rende la lettura immersiva e piacevole, gli approcci molteplici che hanno caratterizzato il lavoro di Beatrice Solinas Donghi sulla fiaba.

Costituisce un ottimo strumento di orientamento critico, caratterizzato da un approccio che radica nella tradizione e si sviluppa nello stupore.

Babalibri-Educazioni”, nasce con lo stesso spirito della storica collana della Emme edizioni di Rosellina Archinto, che diede alle stampe preziosissimi strumenti di pensiero dal 1971 al 1985.

La nuova collana “Babalibri Educazioni” apre con due titoli La scoperta come apprendimento di John Foster e Forse un drago nascerà di Giuliano Scabia e oggi, rinnovata e implementata, è diretta da Francesco Cappa e Martino Negri, professore di pedagogia l’uno, docente di didattica della letteratura l’altro. Si tratta dunque di una collana che mette assieme testi inediti con grandi saggi del passato, intrecciandone idee e pratiche.

La prima cosa che mi sono chiesta è a chi parlassero questi saggi e soprattutto se lo facessero con la stessa efficacia del tempo in cui sono nati. Il nodo piuttosto intricato è quello della differenza del contesto, il passato è prossimo ma comunque si tratta di un tempo distante dal nostro. È cambiata la formazione di chi fruisce dei testi rispetto ad allora, così come è cambiato anche il contesto di applicazione, di rilevanza assoluta proprio nella concezione dei saggi stessi.

Ebbene, il nodo si scioglie quando si fa luce sul metodo di lavoro, il quale ha permesso ai curatori di non limitarsi a riproporre i testi così come apparivano nel momento della loro uscita ma arricchendoli di documenti critici e di nuovi materiali, per fare in modo che il discorso si innestasse ancora una volta sull’idea che la relazione tra docenti e discenti fosse naturale, immediata, viva.

La scrittura accademica si spoglia della sua ieracità, accogliendo nel proprio raggio di destinazione non solo i teorici e gli specialisti dell’educazione e in quello di osservazione anche i nuovi fruitori, con freschezza e dinamismo.

In questi due saggi c’è un Teatro Vagante che nella primavera del 1972, grazie a Giuliano Scabia, si sposta lungo l’Abruzzo attraverso dodici centri urbani. Vaga, e nel farlo si fa conduttore di un nuovo metodo non solo per fare teatro (con burattini, carta, pennelli) ma anche di lavoro, basato sull’agire come comunità, costituendo un humus di conoscenza dinamica, libera, attiva. 

E c’è uno sguardo ampio sulla natura della scoperta come origine dell’apprendimento infantile. Il testo di Foster restituisce numerose esperienze di apprendimento informale, messe a punto nel quotidiano lavoro di insegnamento gomito a gomito coi bambini, che fossero singoli, o costituissero piccoli gruppi, in classe, o macrogruppi (intere scolaresche).

Uno strumento per gli insegnanti ma, anche per noi adulti dall’orecchio acerbo, parte attiva di una sempre più nutrita comunità educante, lo spero, forse un drago nascerà.

Trovi tutti i libri citati nell’articolo (uscito originariamente sul numero di marzo 2023 di Alir il magazine) al Giardino Incartato, libreria indipendente per bambini e bambine, ragazze e ragazzi, in via del Pigneto 303/C a Roma

Emma. Dove vanno i fiori durante l’inverno?

A scavare nella neve con le mani c’è che bisogna togliersi i guanti. Con le moffole è difficile: la neve si appiccica alla lana e si passa più tempo a sbatacchiarle per toglierla che a scavare. A scavare nella neve con le mani per vedere cosa ci sia sotto, c’è che bisogna farlo a mani nude. Quando si giunge al tesoro i polpastrelli sono ghiacciati e le mani rosse e bagnate, ma… ma non ci sono molte cose che profumano come gli aghi di pino un po’ secchi un po’ umidi, misti alle foglie, alla terra soffice, all’erba rada, non più verde, bruna. Quindi vale. Vale la pena.

Emma. Dove vanno i fiori durante l'inverno?, di Spider - 2016, Orecchio acerbo
Emma. Dove vanno i fiori durante l’inverno?, di Spider – 2016, Orecchio acerbo

Da bambina scavavo nella neve, per sentire quel profumo e perché speravo, sempre, di trovare qualche fiore sul punto di sbocciare. Non ne ho mai trovati quindi non so dire cosa avrei fatto: coglierlo e mostrarlo, lasciarlo lì godendomi da sola tutta la meraviglia? Conoscendo la me stessa di allora probabilmente avrei passato molto tempo a decidermi. E, conoscendomi, non so cosa avrei fatto.

Emma. Dove vanno i fiori durante l'inverno?, di Spider - 2016, Orecchio acerbo
Emma. Dove vanno i fiori durante l’inverno?, di Spider – 2016, Orecchio acerbo

Emma è sfuggita alle mie ricerche bambine, ma so per certo che se avessi avuto la possibilità di leggere un albo così, questo albo, all’epoca in cui non mi curavo della pelle screpolata e, anzi, mi sembrava un dazio insignificante da rendere, non me ne sarei mai separata.

Di Emma conservo gelosamente la prima edizione, quella in cui Orecchio acerbo inseriva il bugiardino; Spider nel 2008 ne disegnò tavole e testo. L’armonia è vibrante, tutte le pagine percorse da brividi, cristalli di neve, brillantezza di ghiaccio. Sono immagini in movimento, che danzano sul lago ghiacciato e si rincorrono come in una Silly Symphony, un cortometraggio animato che in inverno conserva il profumo dell’estate.

Emma. Dove vanno i fiori durante l'inverno?, di Spider - 2016, Orecchio acerbo
Emma. Dove vanno i fiori durante l’inverno?, di Spider – 2016, Orecchio acerbo

Emma è un fiore e regola la sua esistenza con l’aiuto di una sveglia. Affida a un congegno meccanico il proprio ritmo biologico. Va tutto bene, fino a quando la precisione meccanica fa cilecca ed Emma si risveglia in pieno inverno. Giusto in tempo per incontrare i suoi amici Lampo, Grugno e un ragno orologiaio. E per raccontare a noi che leggiamo una storia splendida, da regalare, assolutamente, a Natale.

218-emma-n-eTitolo: Emma. Dove vanno i fiori durante l’inverno?
Autore: Spider
Editore: Orecchio Acerbo
Dati: 2016, 36 pp., 11,50 €

Trovate questi libri tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma.

“Vorrei avere…”

Per parte mia vorrei avere la distratta leggerezza delle ali di una farfalla in un mattino ventoso, ma se non avessi questo desiderio segreto (non più ormai) ne avrei senza dubbio trovato uno da condividere in questo splendido albo illustrato che porta le firme di Giovanna Zoboli, per quanto riguarda il testo, e Simona Mulazzani, per le illustrazioni.

Vorrei avere… è un albo che rapisce, letteralmente, specie per la struggente poesia che avvolge e strega ogni parola, ogni tratto. Anche quando si parla di una certa fame allegra che punge l’orso nel frutteto, anche quando si vorrebbe “il nero della pantera di notte a confonder[ci] nel buio”.

Le illustrazioni, curate in ogni dettaglio, in cui l’acquaforte e l’acquerello rendono perfettamente il connubio intensità/colore, nascondono sorprese e manifestano rinvii colti (quello più esplicito è a Henri Rousseau); il testo è snello e rotondo al contempo, si legge d’un fiato, senza compiacimenti si apre e si chiude nell’arco di un respiro.

Vorrei avere..., di Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani - Topipittori
Vorrei avere…, di Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani – Topipittori

Sembra di essere a teatro: gli animali sono in scena nella loro naturale perfezione fatta d’istinto e sensazioni. I colori sono sempre pieni e l’alternarsi di questa pienezza conferisce a ogni quadro un movimento che è visivo e morbido.

I bambini trovano in questo genere di arte la loro più naturale espressione: quando si parla senza orpelli, quando si riserva loro un lessico che è completo e chiaro nella sua elegante complessità non c’è dubbio che essi colgano il senso (non il messaggio) prima e meglio degli adulti. Non il messaggio perché trovarne uno è passatempo e cruccio dei grandi, ai bambini non interessa, i bambini sorridono delle corna del cervo divenute foresta di pensieri (“vorrei avere la foresta di pensieri del cervo quando ascolta il bosco”) e contano divertiti i luminosi uccelli e le altre creature che proprio tra quei rami/pensieri/palchi trovano casa e cibo.

Vorrei avere..., di Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani - Topipittori
Vorrei avere…, di Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani – Topipittori

Un “contenuto speciale” in coda all’albo: gli sketches in bianco e nero raccontano nell’arco di due pagine la storia delle illustrazioni: come nascono, come crescono, acquisiscono dettagli, ne tralasciano qualcuno, cambiano prospettiva. Personalmente mi colpisce la splendida evoluzione del quadro del cane e della sua malinconia; trovo assolutamente geniale, specie ora che scopro la prima intenzione, il rapporto prospettico e quello grande/piccolo che sottolineano l’umore malinconico degli occhi dell’animale in relazione agli arredi della stanza, giochi di bimbi, e alla stanza stessa ingombra della struggente dolcezza del momento.

La quarta di copertina è, infine, manifesto e senso di quanto sia importante restituire al lettore il proprio gusto e la propria autonomia. Niente suggerimenti, niente sussurri ammiccanti, solo un verso che è reale espressione di ciò che ritroveremo nel libro: “Vorrei avere… il collo ascensore della giraffa in una casa d’aria”.

Quando ho scritto questa recensione era il 2010, l’albo era uscito da pochissimo tempo e aveva una copertina diversa. Nel 2021 ha cambiato copertina, ora all’azzurro dilatato di un cielo nella savana si sostituisce quello rosato e languido di una notte di luna piena nella giungla. La poesia, quella, è sempre la stessa. Lo trovate negli scaffali del Giardino Incartato.

vorrei avere

vorreiavere_cop_topipittori1Titolo: Vorrei avere…
Autore: Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani
Editore: Topipittori
Dati: 2010, 32 pp., 16,00 €

P di papà

AtlantideKids - il blog del Giardino Incartato

Che cosa ci vuole per fare un papà? Beh… troppo difficile spiegare tutti gli ingredienti di questa meravigliosa ricetta; se si vuol raccontarlo forse basterebbe un bell’albo quasi quadrato, un tratto essenziale ed elegante, e delle ricche parole ritmate. Parole ricche ma semplici, che acquisiscono ritmo proprio grazie alla loro semplicità.

P di papà - Isabel Minhós Martins e Bernardo Carvalho - Topipittori P di papà – Isabel Minhós Martins e Bernardo Carvalho – Topipittori

Per fare la parola per “papà” ci vuole una “p”, quella di papà appunto, e poi la capacità di accompagnarsi ad altre parole, ogni giorno diverse, ogni ora utili al bisogno. Perché una parola come quella basterebbe di per sé ma anche le parole più belle s’adornano andando a braccetto con altre e allora ecco il  “papà ombrello” nel caso dovesse piovere,  il “papà letto” nel caso si volesse schiacciare un pisolino, il “papà segreto” se si volesse affidare i propri pensieri bambini a uno scrigno sicuro…

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