Per parte mia vorrei avere la distratta leggerezza delle ali di una farfalla in un mattino ventoso, ma se non avessi questo desiderio segreto (non più ormai) ne avrei senza dubbio trovato uno da condividere in questo splendido albo illustrato che porta le firme di Giovanna Zoboli, per quanto riguarda il testo, e Simona Mulazzani, per le illustrazioni.
Vorrei avere… è un albo che rapisce, letteralmente, specie per la struggente poesia che avvolge e strega ogni parola, ogni tratto. Anche quando si parla di una certa fame allegra che punge l’orso nel frutteto, anche quando si vorrebbe “il nero della pantera di notte a confonder[ci] nel buio”.
Le illustrazioni, curate in ogni dettaglio, in cui l’acquaforte e l’acquerello rendono perfettamente il connubio intensità/colore, nascondono sorprese e manifestano rinvii colti (quello più esplicito è a Henri Rousseau); il testo è snello e rotondo al contempo, si legge d’un fiato, senza compiacimenti si apre e si chiude nell’arco di un respiro.
Vorrei avere…, di Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani – Topipittori
Sembra di essere a teatro: gli animali sono in scena nella loro naturale perfezione fatta d’istinto e sensazioni. I colori sono sempre pieni e l’alternarsi di questa pienezza conferisce a ogni quadro un movimento che è visivo e morbido.
I bambini trovano in questo genere di arte la loro più naturale espressione: quando si parla senza orpelli, quando si riserva loro un lessico che è completo e chiaro nella sua elegante complessità non c’è dubbio che essi colgano il senso (non il messaggio) prima e meglio degli adulti. Non il messaggio perché trovarne uno è passatempo e cruccio dei grandi, ai bambini non interessa, i bambini sorridono delle corna del cervo divenute foresta di pensieri (“vorrei avere la foresta di pensieri del cervo quando ascolta il bosco”) e contano divertiti i luminosi uccelli e le altre creature che proprio tra quei rami/pensieri/palchi trovano casa e cibo.
Vorrei avere…, di Giovanna Zoboli, Simona Mulazzani – Topipittori
Un “contenuto speciale” in coda all’albo: gli sketches in bianco e nero raccontano nell’arco di due pagine la storia delle illustrazioni: come nascono, come crescono, acquisiscono dettagli, ne tralasciano qualcuno, cambiano prospettiva. Personalmente mi colpisce la splendida evoluzione del quadro del cane e della sua malinconia; trovo assolutamente geniale, specie ora che scopro la prima intenzione, il rapporto prospettico e quello grande/piccolo che sottolineano l’umore malinconico degli occhi dell’animale in relazione agli arredi della stanza, giochi di bimbi, e alla stanza stessa ingombra della struggente dolcezza del momento.
La quarta di copertina è, infine, manifesto e senso di quanto sia importante restituire al lettore il proprio gusto e la propria autonomia. Niente suggerimenti, niente sussurri ammiccanti, solo un verso che è reale espressione di ciò che ritroveremo nel libro: “Vorrei avere… il collo ascensore della giraffa in una casa d’aria”.
Quando ho scritto questa recensione era il 2010, l’albo era uscito da pochissimo tempo e aveva una copertina diversa. Nel 2021 ha cambiato copertina, ora all’azzurro dilatato di un cielo nella savana si sostituisce quello rosato e languido di una notte di luna piena nella giungla. La poesia, quella, è sempre la stessa. Lo trovate negli scaffali del Giardino Incartato.
È inutile, se tra tutti i protagonisti di un libro c’è un corvo, io lo seguo.
Autunno. I libri delle stagioni, di Rotraut Susanne Berner – 2018, Topipittori
E ne I libri delle stagioni di Rotraut Susanne Berner, sia d’autunno che d’inverno ce n’è uno, che tra il brulicare di personaggi subito m’appare e conquista. E allora è d’obbligo per me seguirne le vicende, che nella mia scelta “stagionale” e non cronologica (il primo edito dei due è stato Inverno) cominciano in Autunno, sulla punta del tetto di una casa a tre piani. Il corvo in alto guarda al cielo, subito in basso una gabbia cui sembra aver, per sua fortuna, rinunciato, o dalla quale è sfuggito grazie alla dimenticanza di qualcuno, e gli incipit cominciano a moltiplicarsi, lasciando spazio a prequel di natura completamente differente, l’uno drammatico, l’altro avventuroso. In alto il cielo, dicevo, e nel cielo uno stormo d’anatre bianche, in fila, a seguire il vento.
Autunno. I libri delle stagioni, di Rotraut Susanne Berner – 2018, Topipittori
Il nostro le guarda di uno sguardo a mezza strada tra chi anela e chi teme (e qui non so perché mi torna in mente un verso dei Pink Floyd: l’invidia è il legame tra chi spera e chi è dannato, per chi volesse ascoltarla mentre segue le avventure del corvo “Green is the Colour”, 1969). Le guarda, insomma, e per qualche istante si sente Mårten, l’oca di Nils Holgersson, e, stanco del suo domestico vivere quotidiano, si libra in volo per raggiungere le sue instancabili ed eleganti simili.
Sempre con l’occhio teso e anelante le raggiunge e, sia per modestia, sia per apertura alare, le segue un po’ discosto. Quando nella terza scena stanno ormai sorvolando il pieno della città, il nostro eroe fa i conti con la realtà e con il suo istinto. Mostra alle lontane parenti che con le grandi distanze non c’è gara, ma sugli scatti è capace di dar loro una pista, le supera e si lancia in picchiata.
Certamente c’è qualcuno in pericolo; sta andando a salvarlo. E invece no, con estremo disappunto mi accorgo di come certi istinti primordiali possano far dimenticare anche il più alto ideale, vale a dire la libertà: Il nostro ha appena sgraffignato un pezzo di formaggio dal piatto di un ragazzo che non può far altro se non allargare le braccia attonito.
Il corvo è ora appollaiato su un muretto e ascolta le lusinghe di una volpe. Le anatre intanto proseguono il loro volo. “Lasciale perdere quelle lì, sapranno anche volare in formazione ma non hanno una voce bella come la tua!”.
“Certo che no!”, avrà risposto beandosi il corvo, perdendo il formaggio, perché la volpe, infine, va via soddisfatta mentre lui mestamente fruga tra l’immondizia in cerca di un boccone.
Intanto soffia il vento e spoglia di tutte le foglie l’albero che maestoso si staglia sulla collina e che è portavoce del passare del tempo e delle stagioni e centro della città in cui ogni cosa si svolge.
Il corvo è ancora lì, tra i rami, in compagnia di un pappagallo, un gufo, uno scoiattolo, un passero, un picchio e un gatto. Sorridono tutti, sulla copertina dell’Inverno, tranne una bimba dalla lunga treccia, che le anatre bianche, tanto eleganti in volo, si rivelano oche dispettose sul prato, le stanno strattonando, e il pupazzo di neve, che pervaso dalla magia dello straordinario del quotidiano, sembra animarsi e volge uno sguardo perplesso alla scena.
Ad aprirlo ci ritroviamo nella stessa città che avevamo imparato a conoscere in Autunno, e le storie da raccontare sono sempre tantissime: ci sono genitori e figli, tipi sportivi in motocicletta, ginnasti in tuta e baffoni, musicisti, innamorati, portafogli smarriti da recuperare.
Il paesaggio è innevato, il lago ghiacciato, la natura è immobile mentre tutt’attorno il resto brulica, di sensazioni, di avventure, di piccoli accidenti quotidiani che tingono ogni cosa di magia. E il nostro corvo? Beh, lui naturalmente c’è ma forse ha imparato qualche lezione e si limita a far da spettatore, appollaiato ora su un tetto, ora su una staccionata, ora su un albero. Io credo alla ricerca di un pezzo di formaggio da sgraffignare.
Ogni tavola è molto ampia si svolge su doppia pagina e, aiutata dal grande formato, risulta chiara in ogni più piccolo dettaglio. Le scene ricordano i diorama; c’è un elemento, la strada, che si sovrappone in primo piano a un recinto, un marciapiede, che a sua volta lascia il passo a una costruzione e così via in una zoommata prospettica che arriva fino all’orizzonte, in cui si incontra il cielo.
Sono tra i miei prediletti i Wimmelbuch. Su queste pagine ne ho parlato in diverse occasioni. Qui Thé Tjong-Khing e l’arte di raccontare per immagini e qui Un giorno nella vita di tutti i giorni. Credo non dovrebbero mai mancare in casa, che dovrebbero essere posti in un luogo accessibile ai bambini e che siano occasione di fantasticherie libere e appassionanti.
Titolo: Inverno. I libri delle stagioni; Autunno. I libri delle stagioni
Autore: Rotraut Susanne Berner
Editore: Topipittori
Dati: 2018, 14 pp., 16,00 €
Li trovate entrambi tra i nostri scaffali in libreria, Il Giardino Incartato, via del Pigneto 303/c, Roma
Ho letto questa storia diversi giorni fa. Mi ha colpita, l’ho lasciata decantare. Oggi ne scrivo pienamente convinta che, paradossalmente, la sua forza stia nella fragilità della bambina protagonista, che non è solo della sostanza di cui è fatta, ma anche del suo porsi nei confronti di ciò che la circonda, incrina, ferisce.
La bambina di vetro, Beatrice Alemagna – 2020, Topipittori
Eppure proprio la consapevolezza di non essere infrangibile, la rende fortissima, le dà piena coscienza di sé, le conferisce la libertà di essere in nessun altro modo. Di lei sappiamo tutto, specie i suoi più intimi pensieri, le sue sensazioni, piacevoli o sgradevoli, tutte.
L’incipit è meravigliosamente rodariano:
Un giorno, in un villaggio vicino a Bilbao e a Firenze, nacque un bambino di vetro. Anzi una bambina
In un tempo non ben definito in un luogo che potrebbe essere ovunque, nasce un bambino. Anzi, una bambina che è senza nome ma della quale impareremo a conoscere, a vedere, ogni dettaglio. L’indefinito si mescola con l’indefinibile e con il concreto in una palpabile sfuggevolezza che è segno distintivo di tutte le storie di Rodari e di quelle che, come in questo caso dichiaratamente, ad esse si ispirano (La bambina di vetro si ispira a Giacomo di Cristallo, storia edita da Edizioni El, con le illustrazioni di Vitali Konstantinov).
La bambina di vetro, Beatrice Alemagna – 2020, Topipittori
Quando non acquisisce le tinte delle cose cui si sovrappone, diventando finestra su ciò che la circonda oltre che su se stessa, la bambina è del colore dell’aria, dell’azzurro trasparente dell’acqua. A volte il suo corpo è trapuntato, a volte si fa tappezzeria; sempre ben illustrati, in immagini o ritagli, i suoi pensieri. Sulle prime il fatto che fossero esposti non le dava fastidio, eccezion fatta per quei pensieri rabbiosi che le incrinavano il corpo, e facevano inorridire gli altri attorno. La difficoltà di stare in mezzo alla gente con il cuore scoperto, per la bambina si fa sempre più insostenibile, per cui decide di partire. Ma nessun posto la accoglie, da tutti si sente respinta, fino al momento in cui accoglie se stessa, si esplicita il suo nome, diventa Gisèle, trasparente, incrinata, perfetta.
La bambina di vetro, Beatrice Alemagna – 2020, Topipittori
Le pagine trasparenti che sono espediente narrativo, significanti, e che al contempo citano il Più e meno di Munari, con un soffio lieve di sovrapposizione o di sottrazione, raccontano, rendendo quasi palpabile la condizione di Gisèle, in una alternarsi di leggerezza dei materiali e profondità di senso.
Titolo: La bambina di vetro
Autore: Beatrice Alemagna
Editore: Topipittori
Dati: 2020, 32 pp., 20,00 €
Ci siamo quasi. Natale sarà qui tra poco più di una settimana, è necessario sedersi a tavolino e fare la lista.
La lista dei regali, la lista dei giochi da fare dopocena, la lista per la cena, la lista degli invitati, la lista di tutto quello che potremmo fare durante le vacanze, e magari anche anticipare la lista dei buoni propositi per il nuovo anno e la lista delle liste delle cose da fare affinché Natale sia perfetto, marci su binari ben oliati, non manchi nulla, ci siano tutti. Impresa titanica che nessuno, penso, sia mai riuscito a concretizzare, perché l’immaginario del Natale è esso stesso leggenda, è complesso, è luccicante, è allegro, è inteso, morbido, perfetto.
Il Natale del topo che non c’era, di Giovanna Zoboli, Lisa D’Andrea – 2015, Topipittori
Però ci si prova, ostinatamente, ogni anno. E, come tutti, ci provano anche il Gatto e il Topo (che sono gli stessi de Il topo che non c’era e Le vacanze del topo che non c’era, di Giovanna Zoboli e Lisa d’Andrea, solo con un tocco d’oro in copertina che fa subito Natale). Fanno mente locale, si mettono a tavolino, due diversi tavolini, in due luoghi diversi, e compilano ciascuno la propria lista per un Natale perfetto che trascorreranno assieme (memo: scrivere in cima alla lista come sana abitudine di non compilare mai autonomamente due liste diverse per una stessa occasione).
Il Natale del topo che non c’era, di Giovanna Zoboli, Lisa D’Andrea – 2015, Topipittori
Liste magnifiche, s’intenda, entrambe, in cui non manca nulla, in una c’è persino l’idraulico, nell’altra le mollette. In comune hanno solo gli invitati (rispettivamente topi e gatti) ma se invece di indugiare su quanto fossero diverse e su quale fosse la migliore avessero considerato quanto fossero compatibili e si completassero a vicenda, avessero messo assieme, per esempio, l’abete con le decorazioni, beh, forse non si sarebbe arrivati al punto di rottura, al litigio.
Il Natale del topo che non c’era, di Giovanna Zoboli, Lisa D’Andrea – 2015, Topipittori
Che però io metto sempre in conto, non mi sorprende, fa parte del Natale. A casa mia esso, il litigio, di solito si palesa nel tardo pomeriggio della vigilia e verte sui tempi che io desidero flessibili, mia madre fermi. Quindi il litigio era nell’aria, non lo si mette in lista perché è quasi scontato.
Il Natale del topo che non c’era, di Giovanna Zoboli, Lisa D’Andrea – 2015, Topipittori
La conclusione no, quella è inattesa, di conciliazione, surreale come l’amicizia tra un topo e un gatto. Per la quale ho temuto, e molto, quando ho visto il topo andarsene schiena dritta e passo da bersagliere, spalle esposte al gatto da parte sua furioso, con le orecchie basse, appiccicate alla testa, pugni serrati e sguardo colmo d’ira. Ma l’amicizia, quella vera, è come il Natale, una bellissima festa.
Titolo: Il Natale del topo che non c’era
Autore: Giovanna Zoboli, Lisa D’Andrea
Editore: Topipittori
Dati: 2015, 36 pp., 20,00 €
Trovate questo libro tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma.
J. E. Millais, Isabella, 1848-49, Liverpool Walker Art Gallery.
I fratelli di Lisabetta uccidon l’amante di lei: egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato; ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico, e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Ho scelto Isabella di Millais per considerare quello che racconterò in queste righe sulla malvagità di intenti, sui finali crudeli, feroci, ingiusti, sui protagonisti lividi che del loro livore tutto imbrattano, anche il destino dei limpidi, anche il coraggio, anche la lealtà. E vincono. Perché no, non è detto che ogni fiaba debba concludersi con un “e vissero tutti felici e contenti” così come non è detto che debbano incominciare con un “c’era una volta”. Lo schema della malvagità si ripete, c’è stato più volte, e proprio in Lisabetta da Messina, dalla Quarta giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio, infuso di realtà come in tutte le novelle, raggiunge una soglia molto complessa da metabolizzare.
Seduti attorno a una tavola imbandita, agiscono tutti i protagonisti della novella boccacciana, raccontando in un’unica immagine l’intera vicenda. In primo piano, sulla destra, sta Lisabetta, lievemente curva, come ad ascoltare il sussurro di Lorenzo che le porge un piatto con della frutta fresca. Lo sguardo di Lorenzo è immoto e altrove, fa già parte di un piano che non è più quello della realtà, che ci sussurra di morte. Anche gli occhi di Lisabetta rimangono quieti, in attesa di rivelazioni sostanziali, mentre la mano sinistra si posa sul capo di un cane fedele che si ripara sulle sue gambe. Alle spalle di entrambi un servo sembra a disagio, come se potesse e non riuscisse invece ad agire, mentre di fianco a Lorenzo una vecchia rivolge loro uno sguardo obliquo, di apprensione e commiserazione. Sempre in primo piano, sulla sinistra, uno dei fratelli di Lisabetta è ritratto nell’atto di calciare il cane, esplicitando i propositi malvagi di cui, assieme all’altro fratello, è portatore. Infine, il secondo fratello rosicchia le unghie pregustando l’attesa del gesto omicida mentre, nel pieno agire della crudeltà, ne vagheggia, rimirando un bicchiere di vino.
La novella, così come il dipinto, si svolge rapidamente, come senza possibilità d’azione, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra si fronteggiano e studiano e già nel farlo i buoni sanno di dover soccombere. Si applica in entrambe le circostanze una hitchcockiana sospensione dell’attesa che dilata il tempo dell’azione e lo svela, anticipando con lentezza un finale annunciato.
Il principe cigno e altre undici fiabe segrete dei fratelli Grimm, illustrazioni di Fabian Negrin, Donzelli editore, 2014
Altra storia, altri fratelli. Siamo tra le pagine delle fiabe dei fratelli Grimm illustrate da Fabian Negrin. La storia è quella de La mano col coltello. A muoverne le fila l’invidia, tra tutte le manifestazioni della crudeltà una delle più alte. La storia è piuttosto semplice, mentre complessi sono i risvolti violenti, di una violenza che è sempre gratuita ma qui lo diventa in modo piuttosto sconclusionato, andando a colpire due innocenti e sostituendo alle vessazioni di genere una ancor più irragionevole e spietata crudeltà. La prima agente è la madre. Madre di quattro figli, di cui tre maschi e una femmina, tratta quest’ultima con la più totale indifferenza e la tormenta con inutili soprusi. La bambina ogni giorno è costretta a un lavoro faticoso tra la torba della brughiera e, per farlo meglio e più in fretta, la poveretta accetta di buon grado un gesto gentile da innamorato: un elfo della montagna le porge attraverso una fessura nella roccia un coltello dalle proprietà magiche (o forse semplicemente molto affilato) con il quale ella riesce a tagliare tutta la torba che le è necessaria. Al rientro bussa due volte sulla schiena della collina e l’elfo allunga la mano a riprendersi l’utensile. La ferocia della madre, che qui non è matrigna ma madre naturale, si alimenta del “successo” filiale tanto da inviare i fratelli a spiarne il percorso e le azioni. I tre, scoperto l’ingenuo escamotage, le sottraggono in malo modo il coltello e con esso mozzano la mano tesa dell’elfo che, convinto che la bambina l’avesse tradito, nessuno mai più vide.
Si tratta di crudeltà pasciuta alla biada dell’idiozia, ma non nuova alle fiabe di origine popolare che si nutrono di pregiudizi, di maschilismo, di brutalità. Nell’illustrazione di Fabian Negrin io leggo ancora di più, un tradimento ancora più profondo. I fratelli Grimm ci raccontano che l’elfo si sentì ingannato dalla bambina, ritenendola colpevole, non vedendo i reali autori dello scempio. Nella lettura, che si fa narrazione, della tavola in ecoline con glicerina di Negrin, però, ad altezza occhi, occhi grandi, attenti, che paiono proprio guardare, c’è un’ulteriore feritoia attraverso la quale l’elfo sembra rivolgere uno sguardo di premura alla fanciulla che, dall’altra parte, cautamente, afferra il coltello.
Sarebbe un allontanarsi consapevole, dunque, per una comprensibile paura, che lascia la bambina completamente sola. Il piano della narrazione è diviso tra realtà e magia ed entrambi ci sono manifesti, assistiamo da spettatori inermi a ciò che ai protagonisti della storia è precluso. E inermi ci allontaniamo, smarriti, persi.
Robert Browning, Il pifferaio magico di Hamelin, illustrazioni di Antonella Toffolo, Topipittori, 2007
La crudeltà che acceca è quella dell’avidità, dell’avarizia del porre davanti a ogni cosa, anche al sollievo, la tensione a ingannare il prossimo, a tessere trame di cupidigia. Il 22 luglio del 1376, nella città di Hamelin, qualcosa di terribile avvenne. Antonella Toffolo lo illustra in un nero venato di bianco in una splendida edizione de Il Pifferio magico di Hamelin di Robert Browning. Tutti i bambini di quella città, come topi al seguito del variopinto pifferaio, sparirono tra le pieghe di una montagna e non fecero più ritorno. Si tratta di una leggenda popolare di radice germanica che cita varie fonti, una più o meno probabile dell’altra (la peste, le crociate dei bambini…): la città di Hamelin si ritrovò invasa da migliaia di topi, spietati, sudici, invadenti. Gli amministratori in pellicce di ermellino, spaventati all’idea di perdere gli agi cui erano avvezzi, accettano l’aiuto di un pifferaio, un agente magico capace, grazie a uno strumento altrettanto magico, di liberare la città e i suoi abitanti dalla pulciosa piaga. Ma lo fa solo in cambio di una ricompensa, che peraltro ben misera appare in confronto al risultato che promette di ottenere. Come nella più classica delle fiabe, laddove gli strumenti del reale perdono di efficacia, a una situazione disperata si pone rimedio con l’intervento del sovrannaturale. Il pifferaio mantiene la promessa ed esige la propria ricompensa, ma la crudeltà, dell’ingratitudine, avvolge e soffoca i propositi e oppone risate sconce a una richiesta legittima. La realtà vorrebbe che, come supposto dai governanti, la storia si concludesse qui: i topi sono morti annegati nel fiume Weser, non possono più tornare. Ma la magia non è così magnanima, conosce altre strade, e quella delle viscere della montagna sembra quantomeno plausibile. E qui la crudeltà si fa spietata e assordante, seguendo un suono mellifluo e affascinante all’orecchio. Tutti i bambini si accodano al pifferaio e al suo flauto magico, scomparendo per non far più ritorno, lasciando i genitori e la città in un dolore sordo e silenzioso.
Tra tutti gli autori di fiabe, Perrault è l’unico a negare il lieto fine, persino in Cappuccetto Rosso non conosce mezze misure “quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone” ed è maestro nel mettere a punto la sospensione dell’incredulità e nel dare credito al gusto della crudeltà manifesto in ogni bambino. Nella prefazione a I racconti delle fate di Carlo Collodi, Giuseppe Pontiggia ne sottolinea in più punti questi tratti distintivi, che rendono giustizia alla struttura fiabesca popolare e di tradizione orale europea.
I racconti delle fate, Carlo Collodi, illustrazioni di Gustave Doré, Adelphi, 1976
Vera infatti è la paura, veri i soprusi, cocenti i tradimenti, violenti gli assassini, i rapitori. Non c’è molto da edulcorare quando a ballare una ridda sfrenata è la crudeltà. E Collodi è stato maestro nel non tradire questi toni crudeli ma schietti dei Contes perraultiani che conoscono protagonisti dai gesti efferati: Barba-blu, Il Lupo di Cappuccetto Rosso, il padre di Pelle d’asino. Assassini, bestie dagli istinti ferini, padri senza amore, privi di pudore, orribili.
Il bimbo ascolta, freme, e però astraendo al piano dell’irrealtà (sono solo fiabe) qualcosa riconosce: la verità. E qualcosa impara, e da qualcosa si difende: la crudeltà è del nostro mondo e spesso non si redime.
Storia del bambino buono – Storia del bambino cattivo , Twain, Olmos – 2013 Logos edizioni
E infine c’è una storia, anzi due. Una è La storia del bambino buono e l’altra è La storia del bambino cattivo, entrambe sono di Mark Twain ed entrambe, assieme nello stesso libro, ma con versi diversi, sono illustrate da Roger Olmos e si incontrano a metà strada. Dunque, c’era una volta un bambino buono di nome Jacob Blivens. Egli era talmente buono che gli altri bambini stentavano a capirlo, anzi, non lo capirono mai. Jacob era ubbidiente, era onesto, era rispettoso. Forse l’unica sua pecca era che “credeva nei bambini buoni dei libri della scuola domenicale, riponeva in loro la massima fiducia […] e nutriva la nobile ambizione di figurare” in uno di essi. Ma essere buoni, specie nei libri, può rivelarsi fatale. Lo dice Twain che adduce alla bontà più morti che alla tisi, e lo diciamo anche noi, considerato quanto letto e scritto finora. E infatti Jacob conosce un destino avverso, avverso sotto molteplici aspetti. E infine, di una fine truculenta che non starò qui a raccontare, muore.
E, dunque, c’era una volta un bambino cattivo di nome Jim. Ladro, violento, dispettoso fino al midollo. Jim era cattivo ma “tutto gli andava diversamente da come succede ai cattivi James dei libri”. Perché tutto gli andava meravigliosamente e sanguinosamente (per gli altri) bene. Anche il fine è lieto per Jim, “il peccatore nato sotto una buona stella”.
Storia del bambino buono – Storia del bambino cattivo , Twain, Olmos – 2013 Logos edizioni
Storia del bambino buono – Storia del bambino cattivo , Twain, Olmos – 2013 Logos edizioni
Scavando nell’archivio della mia memoria, di cattivi che non si redimono, di cattivi che hanno la meglio, di cattivi che si giovano della propria malvagità ne ho scovati tanti. Alcuni li ho dovuti tralasciare per il loro non essere davvero e profondamente cattivi (penso a Cagliuso, rinarrata da Giambattista Basile, cattivo di ingratitudine), altri hanno condito di brividi la mia anima bambina, quella che mi trattiene, e dolcemente, in quella proiezione di mondo che sono le fiabe, quella che ho sperimentato da bambina, passeggiando, e spesso, tra pagine impervie a passo piuttosto incauto. Tra tutti i protagonisti malvagi che ho incontrato, quello che reputavo e reputo più disturbante è il destino crudele, perché esso implica un fatalismo che esula dall’oggettività, sia essa reale, sia essa fiabesca. E fa paura, molta più di quanta potrebbe farne l’orco di Pollicino, giacché da quello, e sin da bambini, abbiamo imparato a difenderci a suon di briciole, di maniche rimboccate e trovate geniali.
Un libro al giorno, ventiquattro libri da leggere e rileggere in attesa del Natale. Ho selezionato albi illustrati, narrativa, visioni laiche che prendono le mosse dal momento più atteso per chi invece crede. Ho scelto libri che invitassero alla lettura partecipata, così come altri da gustare da soli, avvolti in una coperta morbida, nel caldo molle e profumato delle festività natalizie. Vi invito a metterne qualcuno sotto l’albero o nella calza della Befana. Quali tra i tanti? Beh… questo decidetelo voi, io da parte mia ne considererò uno al giorno, quindi l’appuntamento è su questa pagina dal primo al 24 dicembre.
In un’intervista del 2008 al MetropolisMag.com, Ivan Chermayeff ha dichiarato che nel realizzare i suoi celebri loghi cerca di sapere dai committenti qualcosa sul loro passato e moltissimo sul futuro che si aspettano, per crearne di perfetti, che si adattino a rappresentare più prospettive, più visioni.
Sole luna stella, di Kurt Vonnegut, Ivan Chermayeff – 2016 Topipittori
È un processo complesso, quello di pensare un futuro e renderlo immagine. Si tratta del rendere figura l’immaginazione. È esattamente il processo figurativo dell’immaginazione. O anche la meraviglia della prima visione, del vedere ciò che non si è mai visto e attribuirgli un’identità. Ha la stessa forza del primo respiro; del primo vagito.
Parto da questa premessa, perché di Sole luna stella sono nate prima le illustrazioni; solo in seguito Kurt Vonnegut ha pensato il testo cui si accompagnano. Parto da qui, perché leggendo le immagini ho ritrovato in esse i loghi e l’attitudine di Ivan Chermayeff nel realizzarli. Forme semplici e astratte che si appuntano su spazi colorati ed entrano nello sguardo aperto al mondo di un neonato, che pur essendo un Creatore, o proprio per esserlo, le scopre, permettendoci di attribuir loro un senso, di nominarle.
Sole luna stella, di Kurt Vonnegut, Ivan Chermayeff – 2016 Topipittori
Un sole, una luna e una stella che sono visualizzazioni di un futuro capace di raccontare anche il passato. Un passato che è mistico, che è biblico, che è mitico. Un sole che è Maria, una luna che è Giuseppe, che è la levatrice, e una stella che no, non è Gesù e non è nemmeno il Creatore. Perché il Creatore guarda grazie alle sue piccole macchine da presa fibrose, altresì dette occhi; il Creatore vede, per la prima volta, sogna, una, due tre, quattro volte e la quarta sogna in verde. Il Creatore guarda e scorge: sole, luna, stella; sole e luna assieme, stella e stelle, luminose e danzanti. Il Creatore vede il presente per la prima volta e lo vede mentre si fa futuro.
È una natività filosofica, danzante e luminosa, che consiglio a giovani lettori che non si lascino scoraggiare da un registro linguistico piuttosto complesso e dai molti rimandi che, d’altra parte, contribuisce a rendere questo libro, tradotto da Monica Pareschi, un regalo prezioso.
Titolo: Sole luna stella
Autore: Kurt Vonnegut, Ivan Chermayeff,trad. Monica Pareschi
Editore: Topipittori
Dati: 2016, 64 pp., 24,00 €
C’erano una volta tre porcellini che per sfuggire al lupo si costruirono una casa di paglia, una di legno e una di mattoni, a seconda di quanto fossero volenterosi e beneducati. Hanno dei bei calzoncini con le bretelle, dei cappellini colorati e si chiamano Timmy, Tommy e Jimmy. Sono porcellini ma così conciati potrebbero essere anche agnelli, vitelli, oche. Insomma, basta che rientrino nella dieta del lupo poi li si acconcia alla maniera più consueta e familiare (quella di Disney) e la fiaba è servita.
i tre porcellini – Chiara Carrer Giusi Quarenghi – Topipittori
A tornare indietro, alla fiaba classica, almeno i tre non sono stati battezzati e si chiamano Porcellino grasso, Porcellino grosso e Porcellino saggio. Ad andare avanti invece, e finalmente, la dignità di porcello viene riconosciuta e apprezzata e i tre porcellini sono genuinamente tre porcelli. Per quanto mi riguarda la rivoluzione è già in questa scelta, ma Giusi Quarenghi e Chiara Carrer si spingono oltre e i tre porcellini divengono due porcelli travolti dallo spirito rivoluzionario di una porcella che, grazie allo spirito di iniziativa e a un’attitudine controcorrente non subisce gli attacchi cercando di difendersi con la civilizzazione tutta umana, piuttosto con un ritorno alla natura selvaggia, alla parte più genuina di sé. Il che è delizioso. L’intelligenza che lascia il campo libero all’istinto, infine, è l’elemento che chiude il cerchio (di fuoco) e gli conferisce un’aura di affascinante magia che rende questa fiaba illustrata classica e al contempo moderna.
La storia de I tre porcellinici è piaciuta per le illustrazioni di Chiara Carrer che col vuoto dà luogo al tratto e riempie togliendo in una prosa pittorica asciutta e raffinata.
A voler proprio cercare la setola di maiale ci è piaciuto meno un “Mmnnnn” del lupo in grassetto. È l’unico grassetto di tutto l’albo e a mio parere non era necessario. In generale non amo i suggerimenti interpretativi e di tono, in particolare questa narrazione non ne ha assolutamente bisogno.
i tre porcellini – Chiara Carrer Giusi Quarenghi – Topipittori
raccomandato: agli appassionati di fiabe classiche e delle loro riletture e riscritture; ai bambini che potrebbero fare la rivoluzione (a tutti i bambini, quindi!) prezzo: ottimo considerata la qualità della stampa
Titolo: I tre porcellini
Autore: Giusi Quarenghi, Chiara Carrer
Editore: Topipittori
Dati: 2012, 32 pp., 14,00 €
Trovate questi libri tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma. Oppure, se non siete a Roma potete trovarci su Bookdealer o chiederci di spedire a casa vostra, lo faremo con molto piacere ricorrendo a Libri da asporto.
Sei zampe e poco più, laddove il “poco più” sarebbe a dire qualche antenna, talvolta un paio d’ali, ed ecco fatto un insetto, pronto per essere osservato, classificato, ritratto.
Questa guida pratica per aspiranti entomologi, scritta e illustrata da Geena Forrest, è la prima della nuova collana ideata da Topipittori: PiNO, ovvero Piccoli Naturalisti Osservatori.
Mi rendo conto che non sarebbe stato più PiNO ma GiNO ma avrei preferito che piuttosto che ‘piccoli’ i naturalisti osservatori fossero definiti ‘giovani’; ovvio che la conifera sia più rispondente del Signor Gino al contesto per cui…
Certo questo è l’unico appunto che la mia indole ipercritica non poteva esimersi dall’esprimere, perché tutto il resto (che non è affatto poco più) è ben ideato, ben strutturato, ben reso.
Sei zampe e poco più, di Geena Forrest – 2016 Topipittori
Non ha l’aspetto, che ho più volte ravvisato in altre pubblicazioni dal taglio naturalistico, del manuale o dell’enciclopedia, questo libro è uno strumento, è un luogo in cui scoprire e imparare a osservare in base a ciò che si è scoperto.
Questa estate ho trascorso molto tempo nei musei del Parco nazionale della Sila, in Calabria. La biodiversità di quei luoghi di cui i bambini sono testimoni nei musei così come all’aperto è meravigliosa; tutti i bambini chiedevano di fotografare, altri prendevano appunti su taccuini più o meno improvvisati, realizzando schizzi più o meno fedeli di quanto osservavano.
Ecco, se quei bambini avessero avuto l’occasione di leggere Sei zampe o poco più, l’approccio sarebbe stato altrettanto spontaneo ma meglio impostato: cosa osservare? Come distinguere? A cosa prestare attenzione? Sono Coleotteri, Imenotteri, Ortotteri? Come si nutrono? Pungono, succhiano, leccano? Quali sono le cose da segnare, cosa li differenzia l’uno dall’altro?
Ciò che questo libro ha in comune con i manuali è la resa degli insetti: sono veritieri e sono belli, perché realmente belli in natura. L’ambizione è che i giovani entomologi si ispirino a queste pagine per apprezzare il disegno dal vero. E si tratta di ambire e di imitare (alla maniera dei classici però) distinguendo le piccole parti, riuscendo a riconoscerle, apprendendo piccoli trucchi: i Ropaloceri, per esempio, hanno colorazioni sgargianti e complesse. Il disegno sull’ala aperta è diverso, però, da quello sull’ala a riposo (sì, i Ropaloceri sono Lepidotteri, che a loro volta sono farfalle), il suggerimento è di ritrarle in entrambi i modi. Ciò richiede abilità ma anche pazienza e rispetto. Poi non vorrei farmi bella di informazioni apprese di fresco per cui non sto a dirvi grazie a cosa si distinguano Lepidotteri Ropaloceri da Lepidotteri Eteroceri, perché sennò che gusto c’è?
Sei zampe e poco più, di Geena Forrest – 2016 Topipittori
In coda al libro una serie di cartellini per appuntare gli avvistamenti e per costruire la propria scatola dell’entomologo.
Titolo: Sei zampe e poco più
Autore: Geena Forrest
Editore: Topipittori
Dati: 2016, 48 pp., 14,00 €