Hai la mia parola

Con ‘hai la mia parola’ si intendono più cose. È, per cominciare, una dichiarazione di fedeltà, è un giuramento, di quelli che raramente si infrangono, perché solo a dirlo la consapevolezza della serietà dell’impegno è un sigillo. È una dichiarazione d’amore: tu che mi ascolti sai che qualsiasi cosa io dirò lo farò anche per te; se sarai fragile, dirò parole forti, se sarai avventata ne dirò di caute. Io per te. Oppure a parti invertite potrebbe intendersi come se qualsiasi cosa io possa dire è tua, riflette un tuo pensiero.

Infine, se a parlare è una sorella e ad ascoltare è l’altra, e si sostengono e amano a vicenda allora ‘hai la mia parola’ è la frase perfetta per descriverne il legame ed è un titolo altrettanto calzante per un romanzo che sulla parola e la consapevolezza del suo uso si innesta e cresce.

HAI-LA-MIA-PAROLALe due sorelle si chiamano Nera e Mariagabriela, ma di Nera nessuno dice a voce alta il nome, la chiamano la zoppa, la storta, piuttosto. Mariagabriela è bellissima e mite, la vita all’aria aperta però l’ha resa robusta, forte, le sue radici di bambina orfana di madre e figlia di contadini, invece, la rendono socialmente fragile e quindi preda perfetta per i soprusi dei vili. Nera ha imparato a leggere, ciò l’ha resa consapevole e ribelle, capace di usare le parole per difendersi, come una risorsa per sfuggire alle angherie, per salvare, dalla sorte disgraziata cui pare destinata, la sorella.

Ci sono una matrigna crudele e ottusa, un padre debole e manipolabile; c’è la povertà che tutto ammanta di disperazione e limita le scelte. E infine l’amicizia, l’amore, i legami tra i deboli che diventano catene resistentissime capaci di rivalsa. È una fiaba drammatica e perfetta, con la forma del romanzo. Anche i capitoli girano attorno alle parole e da esse si muovono, una parola, un titolo, per ogni lettera dell’alfabeto e tre parti che sembrano andare in direzioni diverse e infine tutte in una convergono, ‘hai la mia parola’, per sempre.

Nera si muove per le terre di un’isola aspra, che è la Sardegna, con un amico fedele e dei compagni animali (una capretta e un gatto) che vivono con essi d’amore e gratitudine; fa delle parole e della sua capacità di narrarle la propria salvezza, dando luogo a una protagonista indomita e fiera, capace di grandi slanci d’amore, di sacrifici, di coraggio.

Un romanzo avventuroso e pieno, capace anche di un finale non scontato.

La Signora Frisby e il segreto di Nihm

Nihm è un acronimo, sta per National Institute of Mental Health. Ma cosa ha a che vedere un dolce e mite topolina di campagna con un segreto di tale importanza?

La signora Brisby vive in un mattone di calcestruzzo, rimasto sepolto nell’orto del Signor Fitzgibbon, assieme ai suoi quattro topolini, dei quali si prende cura da sola da quando è rimasta vedova del suo amatissimo Jonathan. La Primavera è alle porte e con essa si avvicina il periodo dell’aratura, per cui la famiglia Brisby dovrebbe traslocare nella sua residenza estiva, per evitare di finire male tra i ferri dell’aratro. Ma purtroppo il figlio Timothy, si ammala di polmonite. È il più fragile, il più delicato dei quattro. La signora Brisby sa che deve trovare una soluzione e deve farlo in fretta.la signora frisby

Da questa presa di coscienza, che deriva da un’urgenza come in tutti i romanzi che si rispettino, parte un’avventura, che conserva i toni bucolici à la Beatrix Potter per quanto riguarda le descrizioni dettagliate e lievi della natura in cui i protagonisti si muovono, ma al contempo si riempie di mistero e ne intreccia altre nutrite di personaggi ben caratterizzati, di amicizia, d’amore, di coraggio.

Con l’aiuto di un topo ‘druido’ piuttosto intelligente, la vita di Timothy è salva, ma il topolino non può affrontare il viaggio verso la residenza estiva. L’unica è spostare la casa fuori dall’orto. I ratti del roseto possono farlo. Sembrerebbe impossibile, come un manipolo di ratti potrebbe? E invece quei ratti possono far questo e molto molto altro. Il Segreto di Nihm è tutto lì e non si esaurisce tra le pareti di roccia di una tana bellissima, ma si dirama e tocca il passato il presente e il futuro.

copertinaInfine, una parola per il corvo, che fa parte di quei personaggi per nulla brillanti in intelligenza ma senza i quali, senza la loro spontaneità, senza la loro leggerezza, senza la loro generosità, nessun eroe potrebbe mai essere tale.

Questo romanzo di Robert C. O’Brien, edito da Mondadori, si è aggiudicato la Newbery Medal nel 1972, è illustrato in bianco e nero con inserti a pagina piena da Fabio Pia Mancini e tradotto dall’inglese da Davide Morosinotto.

E se…?

E SE...?, di Anthony Browne - 2020 Camelozampa

Anthony Browne racconta storie che sempre si dipanano sul sentiero dell’irrequietezza, giocando coi toni, col timbro delle voci, con la luce e la sua assenza. Tra queste pagine i passi di mamma e bambino sembrano risuonare nel buio già pesto della sera, si percepisce lo scricchiolio delle suole sul marciapiedi di questa che si intuisce una periferia cittadina. Si cerca l’indirizzo giusto, quello che aprirebbe le porte a una festa ma si incappa in spaccati di vita, si sbircia in momenti privati, velocemente, solo per rendersi conto se si è nel posto giusto o meno, ma in tempo per veder concretizzare oltre ogni finestra una delle decine di ipotesi catastrofiche che sgomitano nella mente del bambino: E se…?

E SE...?, di Anthony Browne - 2020 Camelozampa
E SE…?, di Anthony Browne – 2020 Camelozampa

Joe è preoccupato, labbra serrate, capo un po’ chino, rigido, come se risentisse della pressione che le mani stanno operando sul pacchetto regalo, strette. Il piede destro pronto a partire ma non del tutto staccato da terra, esita. Joe vorrebbe andare alla festa cui è stato invitato, ma è preoccupato, e la sua preoccupazione si fa ombra talmente ingombrante da superare il margine dell’illustrazione, strisciare su tutta la pagina, fino al suo limite.

E SE...?, di Anthony Browne - 2020 Camelozampa
E SE…?, di Anthony Browne – 2020 Camelozampa

È il crepuscolo, ma l’albo si apre con molto colore. L’immagine di Joe ne è piena. Poi si passa all’ombra con tutti i dubbi che porta con sé: E se…?

E se alla festa ci fosse qualcuno di sconosciuto?, si chiede Joe; sarebbe il momento giusto per fare nuove amicizie, gli risponde, rassicurante, la madre. E Joe prontamente ribatte: “Non se sono TREMENDE!” E qui, in questo esatto momento, incomincia il gioco dell’alternanza campo lungo/campo corto nell’altra serie di ipotesi che accompagna quelle esplicite di Joe: sarà quella la casa di Tom?

E SE...?, di Anthony Browne - 2020 Camelozampa
E SE…?, di Anthony Browne – 2020 Camelozampa

Come fosse una macchina da presa lo sguardo, di Joe e di sua madre, si acuisce per passare dall’ipotesi del campo lungo, all’evidenza del campo corto. E sì, sono tremende le persone che lo sguardo inquadra: orecchie a punta, piccole antenne carnose e basi delle lampade munite di denti affilati; brutti cipigli e un’evidente tendenza a trascurare il proprio animale da compagnia dagli occhi tristissimi.

E SE...?, di Anthony Browne - 2020 Camelozampa
E SE…?, di Anthony Browne – 2020 Camelozampa

Alla preoccupazione di Joe sulla presenza di tante persone risponde un’elefantiaca e grigia solitudine. Mentre nella tavola successiva Anthony Browne, in un surrealismo parossistico, cita Lewis Carroll, come aveva esplicitamente già fatto in Willy The Dreamer, mettendo un sorridente Humpty Dumpty nel portauovo di una tavola male imbandita.

Si percepisce l’inquietudine del bambino nel momento in cui il suo sguardo incontra e raffigura un contesto da festa dell’orrore à la Bruegel. La prospettiva cambia invece quando la via d’accesso alla casa degli altri piuttosto che la finestra è la porta. Una porta che si apre, sorrisi che accolgono. L’ansia di Joe si dissipa e trasfonde nell’animo della madre che ritorna sui suoi passi in preda ai dubbi. Non sappiamo come abbia trascorso quelle ore di festa la mamma di Joe, quel che vediamo è un luminosissimo Joe, stavolta senza ombre a segnare il passo e l’allegria, sorridente, al suo ritorno.

copertinaTitolo: E SE…?
Autore: Anthony Browne (traduzione di Sara Saorin)
Editore: Camelozampa
Dati: 2020, 36 pp., 16,00 €

La voce del Branco. Gli eredi

Mi chiedo se nell’immaginario di un ragazzo ci possa essere qualcosa di più attrattivo del trasformarsi in un lupo mannaro, del poter dare libero sfogo alla parte ferina di sé, allentando il controllo, lasciandosi dietro alle zampe formalismi e consuetudini.

Scrivere un altro libro con protagonisti i mannari, però, è impresa ardua. L’immaginario è colmo, rimane attrattivo, ma è colmo.

E invece La voce del branco si alza sonora grazie a Gaia Guasti che intreccia di felci, paura e libertà una trama originale che alla propria base ha la naturalezza del prendere gli eventi, anche quelli più complicati da metabolizzare, perché travalicano la sfera della realtà consueta, anche quelli che si complicano di mistero e tempo, anni, decenni.

Mila, Ludo e Tristan ogni anno si danno appuntamento alla Sorgente dei Lupi per festeggiare assieme i loro compleanni. Vivono tra le montagne e sono diversissimi tra loro, per carattere, per contesto familiare; ma un legame d’amicizia li lega profondamente, talmente tanto nel profondo che non meraviglia il loro agire di concerto, anche nei momenti in cui sembra ci si allontani, ci si perda.

Uno dei 15 novembre di festa, l’ultimo, accade qualcosa di inatteso, feroce: tutti e tre i ragazzi vengono attaccati da altrettanti lupi.

Li avevamo conosciuti quei tre lupi, giusto il tempo breve in cui hanno continuato ad esserlo, e sappiamo della presenza di una quarta lupa, per la quale è complesso non provare empatia, sebbene si intuisca che sarà proprio lei il nodo che non lascerà scorrere dolcemente il pettine dei loro fantastici destini.

Parallelamente al turbinio di sensazioni ed eventi che investe i tre protagonisti, nel bosco accadono delitti efferati che sembrano condurre in un’unica, plausibile, direzione. Eppure, i lupi ci insegnano che è bene sempre avere sotto naso più piste. Per non ritrovarsi senza vie di fuga.

Gaia Guasti fa proprio un lessico, quello del fantastico, thriller, horror, che non le è consueto ma le si addice. Ne consegue una lettura molto piacevole e serrata, immersa nel sottobosco, che del sottobosco restituisce tutti gli odori e mette in febbrile attesa della prossima avventura.

voce del branco.jpgTitolo: La voce del branco
Autore: Gaia Guasti (traduzione di Gaia Guasti e Sara Saorin)
Editore: Camelozampa
Dati: 2019, 232 pp., 15,90 €

Trovate questo libro tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma.

L’ultimo regalo di Natale

Il Monte Rotolo è lassù, molto, molto lontano. Eppure Babbo Natale indossa la giacca sul pigiama, infila gli scarponi e parte. Deve raggiungerlo perché ha scordato sul fondo del sacco il regalo per Beniamino Stamberbugio, che vive lì in una casupola coi suoi genitori che sono molto poveri e non possono comprargliene. E deve farlo senza l’aiuto delle renne, perché sono ormai stremate dopo aver girato attorno al mondo, senza contare che una di loro ha anche il mal di pancia.

L'ultimo regalo di Natale, di John Burningham - 2019, Mondadori
L’ultimo regalo di Natale, di John Burningham – 2019, Mondadori

Nella notte fredda dell’inverno che si colora del rosso che anticipa l’alba, Babbo Natale parte. Sulla sua strada incontra un pilota che si offre di accompagnarlo. Purtroppo una tempesta di neve li costringe ad atterrare ma, in una catena di eventi che alternano i bei momenti del caso a quelli meno belli, addirittura pericolosi, tra jeep, aereoplani, motociclette e corde da scalata, Babbo Natale riesce ad arrivare in tempo ai piedi del letto di Beniamino.

L'ultimo regalo di Natale, di John Burningham - 2019, Mondadori
L’ultimo regalo di Natale, di John Burningham – 2019, Mondadori

La strada del ritorno è altrettanto lunga ma il sorriso di Beniamino, che conclude la storia, vale tutte le disavventure che un viaggio così lungo può comportare. In ogni tavola, specie in quelle a doppia pagina, Babbo Natale appare come un uomo semplice, caparbio e coraggioso, ma privo di quei poteri che gli permettono di consegnare milioni di regali a bambini di ciascun angolo del mondo. I paesaggi appaiono immensi, minacciosi e allo stesso tempo immergono in una realtà magica, appunto, che si nutre della volontà di questo anziano signore determinato a non deludere un bambino.

L'ultimo regalo di Natale, di John Burningham - 2019, Mondadori
L’ultimo regalo di Natale, di John Burningham – 2019, Mondadori

Una storia classica di un grande autore della letteratura per l’infanzia, John Burningham, che consiglio ai bambini che nutrono il proprio quotidiano di magia. A tutti i bambini, quindi.

51Px6yW2bJL._SX431_BO1,204,203,200_Titolo: L’ultimo regalo di Natale
Autore: John Burningham (traduzione di Giuditta Capella)
Editore: Mondadori
dati: 2019, 48 pp., 17,00 €

Emil, il polpo gentile

Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer - 2019 Lupoguido

Questa storia incomincia con un palombaro, che ha un titolo e un nome, capitano Samofar, che danza lieve sul fondo del mare. Un mare che è verde e del suo verde tinge anche le alghe, i pesci, lo squalo che stava passando oltre ma poi torna sulle sue nuotate e realizza che stava per farsi sfuggire un bel bocconcino. Non ha fatto i conti con Emil, il polpo gentile, però, che interviene in suo aiuto salvandogli la vita.

Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer - 2019 Lupoguido
Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer – 2019 Lupoguido

Il capitano, riconoscente, lo porta a casa sua e lo ospita in una vasca colma di acqua salata. Fuori dal mare domina il rosso, in molte delle sue sfumature. Sia dentro che fuori dall’acqua, invece, l’arguzia e la vena aspramente comica di Ungerer si spandono con naturalezza, così come naturalmente Emil si adatta alla vita sulla terraferma, al di fuori dal suo habitat naturale. Però sente la mancanza del mare e allora sceglie di lavorare in spiaggia, da bagnino.

Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer - 2019 Lupoguido
Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer – 2019 Lupoguido

Lì, una coppia di bambini lancia contro una signora dal costume a strisce un granchio inviperito, che prontamente le pizzica il didietro; e mentre un aereoplano trancia di netto il filo di un aquilone, Emil sorveglia tutto dalla cima della torretta di avvistamento, mentre al limite della piega della pagina, una bagnante sembra accorgersi del nostro sguardo indagatore e lo incrocia, con fare interrogativo. Ogni tanto, Emil salva anche quattro bambini alla volta, in un surplus di gentilezza, mentre qualcun altro, molto meno gentile, lascia un pesce a boccheggiare mezzo sepolto sotto la sabbia.

Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer - 2019 Lupoguido
Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer – 2019 Lupoguido

Oltre che gentile, Emil è un polpo straordinariamente versatile, riesce a cambiare persino forma, e da polpo in poche mosse diventare uccello o slitta, ma soprattutto non manca in coraggio: grazie al suo intervento sventa un colpo ordito da una banda di contrabbandieri e, quando la situazione si fa pericolosa e sembra che stiano per farla franca, ecco che interviene ancora una volta in maniera risolutiva. Per il suo coraggio gli intitolano una nave e organizzano un banchetto che Ungerer imbandisce di bevande e frutta e al termine del quale Emil decide di tornare sul fondo del mare. Lì il Capitano Samofar va a fargli visita ogni volta che gli è possibile, e assieme giocano placidamente a dama sotto lo sguardo implorante di un pesce in gabbia.

Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer - 2019 Lupoguido
Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer – 2019 Lupoguido

Questa ultima tavola mi riavvicina più di tutte le altre all’Ungerer dissacrante che molto amo. Quello che trova la radice più intima e vera dell’animo umano nelle sue contraddizioni, che riesce a far convivere con naturalezza virtù innegabili e altrettanto innegabili debolezze. Un filo sottile di crudeltà senza il quale nulla sarebbe la gentilezza, ignorando il quale probabilmente ci si adagerebbe in un’amaca gonfia, resa soffice dalla banalità della narrazione lineare, dei protagonisti senza inciampi.

emil-cop-web.jpgTitolo: Emil, il polpo gentile
Autore: Tomi Ungerer (traduzione Gabriella Tonoli)
Editore: Lupoguido
Dati: 2019, 32 pp., 15,00 €

La mia estate indaco

L’estate concede troppo tempo. Ai pensieri, alla noia, alla notte, al sonno. Ce ne sono alcune, poi, che si frastagliano e sfrangiano in decine di piccole estati, ciascuna con la sua gioia, il suo dolore, la mancanza, la nostalgia, la gioia mai così grande. L’estate concede momenti lunghissimi, dilatati, in cui indugiare. Capita a volte di fermarsi a cercare d’afferrare l’aria morbida e vaporosa, alcolica, che si muove, bollente, sull’asfalto. E, riuscendoci per metà, avere il tempo di riprovare a farlo, senza contare se sia utile o meno.

Per questa ragione, a metà, credo che per Viola sia un momento di passaggio, una soglia, attraversando la quale qualsiasi cosa cambia; per la possibilità, cioè, di indugiare sui dolori, gli affetti, le mancanze, senza riuscire ad afferrarne l’oggettiva portata, il vero senso, senza riuscire a ingoiarli, metabolizzarli, farne passato, vissuto. È il tempo, troppo, che concede l’estate. E poi sono i tredici anni. Che arrivano e danno i brividi e gli mettono fretta, anche a quello più lento.

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Entrambe le cose, il tempo lento, trattato con cura, e le emozioni piene dell’estate, si ritrovano nel tono di Marco Magnone, che consegna alla sua protagonista un timbro di concerto diretto e lieve.

Viola si è appena trasferita in una città nuova, di provincia, ha lasciato i suoi amici e per la prima volta non trascorre le sue vacanze in montagna, coi nonni, amatissimi, in roulotte. La nonna è morta e il nonno non sta per niente bene. Viola subisce gli eventi ma non li accetta e lo mostra apertamente. Meno apertamente ma molto intensamente, gestisce le proprie emozioni, incanalandole con molta energia verso l’amore, gli affetti pieni. Vive nel ricordare spesso a se stessa il giorno in cui ha toccato il fondo, così lo definisce, un momento di esposizione completa allo sguardo e al giudizio altrui che non solo l’ha segnata ma che continua a zavorrarla senza che sembri possibile tagliare la fune e riemergere, respirando a pieni polmoni.

Viola non entra più in acqua, fino a quando qualcuno dagli occhi magnetici e dall’attitudine misteriosa, non libera il suo entusiasmo, la sua scattante energia. Con lui, Viola affronta se stessa, gli altri, un viaggio. Si chiama Indaco e nasconde un segreto che non sembra affatto una bugia.

Ci sono anche le bugie, in questo romanzo realistico di adolescenza piena. E meno male, perché altrimenti non sarebbe stato affatto vero.

978880471545HIG-628x965Titolo: La mia estate indaco
Autore: Marco Magnone
Editore: Mondadori
Dati: 2019, 280 pp., 17,00 €

I treni della felicità e una nave di nome Mexique

Tre in tutto di Isabella Labate e Davide Calì - 2018, Orecchio acerbo

Tra il 1945 e il 1952 settantamila bambini del sud Italia vennero accolti da famiglie del nord per essere accuditi, sfamati, perché avessero le cure necessarie all’infanzia che il fascismo e la guerra avevano distrutto.

L’iniziativa si deve all’Unione Donne Italiane, che compì in pochissimo tempo, nell’arco di un paio di mesi, un’impresa che a stento si riuscirebbe a progettare con tutti gli strumenti di cui si è dotati nel nostro contemporaneo. Eppure, allora, da Roma, dalla Ciociaria, da Cassino e Napoli, e dalla Puglia partirono i treni della felicità, che portarono i bambini al nord, dove c’erano ad attenderli centinaia di famiglie di contadini, operai, impiegati, che li salvarono da un destino di fame, povertà, malattia.

Tre in tutto è Finalista Premio ORBIL 2019 sezione albi illustrati.


Il 27 maggio 1937, salpò da Bordeaux, in Francia, il Mexique, diretto in Messico. A bordo 456 bambini, tutti figli di repubblicani spagnoli. Per tre o quattro mesi, questo era il piano: allontanare i bambini dalla guerra per poi riabbracciarli al suo termine.

Sbarcarono a giugno a Veracrux, da lì in poi, diventarono “i bambini di Morelia”, luogo in cui furono accolti in un esilio che si rivelò definitivo. Nessuno dei bambini tornò mai in Spagna, se non qualcuno, da adulto. Il governo messicano se ne prese cura fino al 1948, da allora, furono abbandonati al proprio destino.


Tre in tutto, con le illustrazioni di Isabella Labate e il testo di Davide Calì, racconta una storia vera, dunque, e lo fa per mezzo della voce di un bambino, che assieme alla guerra, sentita più che vissuta, riporta un guazzabuglio di emozioni, di smarrimento, paura, gioia, mancanza, affetto, accoglienza; e fame.

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Le illustrazioni in grafite hanno il dono di raccontare una storia che è sempre in viaggio. Il tratto neorealista conduce per mano al cinema e di quel cinema ricorda la realtà, una realtà fatta di movimento: si spostano e viaggiano i bambini, si muovono impauriti e smarriti per sfuggire alla vasca da bagno; si muovono le mani operose delle mamme, delle zie, dei nonni che impastano, versano, infornano il pane, sul quale i bambini (il bambino che narra assieme a suo fratello) segnano con un ‘W’ per riconoscerlo.

Io e mio fratello facevamo la W che avevamo visto tante volte nelle scritte sui muri che dicevano W i partigiani.

Tre in tutto di Isabella Labate e Davide Calì - 2018, Orecchio acerbo
Tre in tutto di Isabella Labate e Davide Calì – 2018, Orecchio acerbo

E poi ritornano, alle loro case, dove ad aspettarli non trovano quattro pasti al giorno, o la cioccolata calda; li accoglie una miseria che avevano dimenticato, ma lo stesso affetto e la stessa forza che li aveva condotti, a costo della separazione e della lontananza, con coraggio e fiducia verso altre case, altre famiglie. Ecco, Tre in tutto, è, più di ogni altra cosa, una storia di coraggio e fiducia.  Che ci siano stati davvero da una parte e dall’altra, questa consapevolezza, sortisce lo stesso effetto, accogliente, di un abbraccio.


Una nave di nome Mexique, di Maria José Ferrada e Ana Penyas, scioglie invece quell’abbraccio, e lascia nella schiena un senso di amarezza.

una storia vera avvenuta molti anni fa che però ci parla della solitudine, della tristezza e della paura di chi affronta un viaggio, lasciando la propria terra e la propria famiglia con una speranza in tasca, quella di trovare un posto sicuro, e poi riabbracciare i propri cari, e invece non può far altro che sopravvivere.

Una nave di nome Mexique di Maria José Ferrada e Ana Penyas
Una nave di nome Mexique di Maria José Ferrada e Ana Penyas – 2019, Edizioni Clichy

A raccontarla la voce di una bambina, lei in tasca ha una canzone. Sbocciano come i fiori tra i bambini della nave, dice, le canzoni, portano consolazione e sostegno. Parla di Repubblica. Si chiede cosa sia, e la assimila a un essere che sopra ogni altra cosa è libero.

Che cos’è la Repubblica?
La Repubblica è un casa.
La Repubblica è un pugno che si alza. Un uccello.

Le illustrazioni si basano sulle foto dei “bambini di Morelia” e della nave che li portò in Messico. I volti dei bambini le ricordano e ne comunicano la tensione, la paura. Sembrano ritagliati, quegli sguardi, e incollati in un contesto, su una Storia, che non riconoscono e che li smarrisce. Ho desiderato per loro un finale diverso, senza fare i conti con la realtà.

tre_in_tutto_1.jpgTitolo: Tre in tutto
Autore: Isabella Labate e Davide Calì
Editore: Orecchio acerbo
Dati: 2018, 36 pp. 15,00 €

 

9788867995998_0_0_531_75.jpgTitolo: Una nave di nome Mexique
Autore: di Maria José Ferrada e Ana Penyas
Editore: Edizioni Clichy
Dati: 2019, 32 pp. 17,00 €

Ci si vede all’Obse

A Stoccolma nell’estate del 1981 Annika trascorre le vacanze estive più drammatiche della sua esistenza. La famiglia di Annika era sul punto di partire per la campagna quando il fratellino atteso per l’autunno nasce prematuramente. Dalla giornata in cui la madre e il fratellino arrivano in ospedale, Annika affronta da sola, a suo modo, la tragedia in cui si ritrova tutta la famiglia. Il padre e la madre la affidano alle cure di un nonno premuroso e buffo, buona forchetta e con una passione per le api e i ritornelli cantabili, ma lei preferisce la solitudine in cui inconsapevolmente anche i familiari, proteggendola dalla verità, la confinano.Ci si vede all'obse

Annika ha una caratteristica di cui va fiera: sa raccontate le bugie. Se ne inventa sempre di nuove e intricatissime e lo fa perché le bugie sono senza dubbio più intriganti e fantasiose della realtà. Anche per questa ragione non fatica a fare amicizia con un gruppo di ragazzi conosciuti per caso al parco dell’Osservatorio astronomico.  Un gruppetto di bambini e ragazzi variopinto: c’è il leader, una ragazza quattordicenne dal piglio brusco e dagli occhi verdi “da mostro”; c’è Foglia, un bambino di 9 anni, malnutrito e sudicio, c’è il ragazzo dai capelli vaporosi che ama il cucito e marina il campo scuola, c’è la ragazzina saggia e il figlio di metodisti che reagisce all’educazione ricevuta infilando un paio di bestemmie e qualche parolaccia in ogni frase che pronuncia.

E infine c’è Annika, ben lieta di tenere fede al patto che tiene unito il gruppo: non raccontarsi mai nulla della propria vita. Ciondolano nel parco e per le strade di Stoccolma giocando a obbligo o verità, ma mai nessuno propende per la verità, che tutti rifuggono anche a costo di compiere gesti pericolosi, rischiosissimi.

L’estate trascorre e Annika non riesce a raggranellare il coraggio per andare a far visita alla mamma e al fratellino. Si interroga e si mette alla prova ma non riesce a compiere il passo che la condurrebbe dritta alla realtà.

Quando l’estate è quasi finita lo è anche il romanzo e gli eventi sembrano essere sull’orlo di un precipizio. In ospedale le cose si complicano in maniera preoccupante, mentre un “obbligo” molto rischioso mette a repentaglio vita e amicizia. Con un lessico asciutto e diretto, uno stile senza fronzoli e una protagonista bugiarda, Cilla Jackert ci racconta una storia squisitamente vera che si può leggere o ascoltare, io l’ho ascoltata dalla voce di Eleonora Calamita (audiolibro disponibile in collaborazione con Il Narratore Audiolibri).

Ci si vede all'obseTitolo: Ci si vede all’Obse
Autore: Cilla Jackert (traduttrice Samanta K. Milton Knowles)
Editore: Camelozampa
Dati: 2018, 200 pp., 11,90 €

Lo trovate tra gli scaffali del Giardino Incartato