Bastano, bastano davvero. Col tempo giusto, lo spazio giusto. Che poi sono quelli che ciascuno di noi si prende, sceglie per sé. Quindi bastano, davvero e sempre.
Bambini, guardate!
Le prime ciliegie dell’albero piantato da papà.
Cinque per te e cinque per te, eccole qua.
“Bastano cinque ciliegie” comincia così, con una mamma che distribuisce una manciata di frutti ai propri bambini, cinque ciascuno; o meglio comincia ancor prima, quando sulla prima sguardia una distesa di fiori soffici, profumati, disvela solo in parte il volto sereno e sorridente della mamma e i primi giochi dei bambini. E poi i frutti, rossi, tondi, brillanti e pieni, dai piccioli lunghissimi, resistenti a ogni gioco, ogni pensiero.
Bastano cinque ciliegie, Vittoria Facchini – Terre di Mezzo, 2020
E le mani che si fanno strumento per lanciare, portare, accompagnare intrecciare giochi, presente, fantasia e ricordi.
Le pennellate sono dense e piene, un tratto corposo e dinamico che segue la narrazione, pagina dopo pagina, e cambia tono, ammorbidendosi sulle tracce delle idee, delle trovate dei bambini, adattandosi alla nostalgia come alla gioia, ai momenti di stanchezza come a quelli di frenesia.
Bastano cinque ciliegie, Vittoria Facchini – Terre di Mezzo, 2020
I bambini sono due ma sulle prime li ho pensati come se fossero uno solo, che un solo bambino parlasse di tanti e diversi, così come un solo bambino fosse portatore ed espressione di tutti i momenti tanti e diversi di ogni quotidiano, di ogni pomeriggio passato nell’orto, nel salotto di casa, o mattina sotto a un ciliegio.
I due bambini sono vestiti in maniera molto simile e sembrano avere la stessa età, distinti solo dalle scarpe e dal nastro con il quale giocano, sono allo stesso tempo due persone a sé stanti, proprio come due ciliegie nate e pendenti da uno stesso picciolo.
Bastano cinque ciliegie, Vittoria Facchini – Terre di Mezzo, 2020
Condividono lo stesso numero di ciliegie, hanno la stessa mamma e un comune senso di nostalgia, che li induce a socchiudere gli occhi e allungarsi il più possibile, tendendo le mani, per mandare pensieri e doni a quel papà che si intuisce assente e al quale devono la bellezza dei frutti coi quali giocano, il loro rosso, il loro tondo sapore dolce.
Bastano cinque ciliegie, Vittoria Facchini – Terre di Mezzo, 2020
Ho avuto il piacere di intervistare Vittoria Facchini per la mia libreria, Il Giardino Incartato.
L’ospite inatteso di Antje Damm, pubblicato da Terre di mezzo e tradotto da Giulia Genovesi, è un albo nelle cui prime pagine trionfa un ombroso virato seppia, sebbene in certi punti delle tavole ci siano dei tocchi di luce che lasciano presagire un’evoluzione della storia verso il colore, libera dai toni impastati del grigio che nasce da Elsa stessa, la protagonista, e al contempo la affligge.
L’ospite inatteso, di Antje Damm – 2019, Terre di Mezzo
Elsa è una signora dai capelli raccolti in due crocchie sui lati, che beve il tè da sola, in una casa buia in cui la luce sembra restare all’esterno, non riuscendo a penetrare attraverso le finestre nonostante siano trasparenti. Ci si presenta in abito da casa e ciabatte, lo sguardo e pensoso. Sembra triste; Elsa ha paura di tutto.
L’ospite inatteso, di Antje Damm – 2019, Terre di Mezzo
Antje Damm ha ritagliato Elsa, poi ha completato la casa con mobili e arredi di cartone e quindi l’ha fotografata. Di tenerla pulita e in ordine si occupa Elsa, lo fa ogni giorno. Elsa è un ritaglio triste di carta, bianco a quadretti neri e si muove in un contesto che è tridimensionale, profondo, all’interno del quale, un giorno all’improvviso, dallo spiraglio lasciato aperto di una finestra, entra un aeroplanino di carta azzurra. Il giallo intenso dell’esterno, visibile solo attraverso le finestre di Elsa, ha aperto un varco a questo strano oggetto di cui Elsa ha tremendamente paura. Talmente tanta da bruciarlo. Ciononostante, durante la notte, Elsa non riesce a dormire tormentata dagli incubi e ossessionata dal terrore. Fino a quando, l’indomani, qualcuno bussa alla sua porta e lei, aprendo con lo sguardo arcigno di chi non vuol esser disturbato, si ritrova di fronte un bambino, il legittimo proprietario di quell’invadente oggetto azzurro.
L’ospite inatteso, di Antje Damm – 2019, Terre di Mezzo
Al bambino dai vestiti dai colori sgargianti scappa la pipì, Elsa gli indica il bagno e lui si lascia dietro una scia di colore sempre più lunga. Ad ogni suo passo la casa di Elsa si tinge di nuovo, improvviso, inatteso, di qualcosa di non più tanto spaventoso. Il bambino curiosa, e man mano che il suo sguardo si posa sulle cose, esse si tingono, la stessa Elsa si colora quando comincia a giocare con lui, a leggerli delle storie
L’ospite inatteso, di Antje Damm – 2019, Terre di Mezzo
L’ospite inatteso, considerato dal New York Times tra i 10 migliori albi del 2018, è un libro in cui un’idea semplice apre le porte alla luce e al colore della compagnia dei sorrisi, capaci di scacciare il grigio della paura e della solitudine. Composto con eleganza e misura, si confronta con l’ineffabile spontaneità dei bambini, con la loro tenera invadenza, il loro rispondere ostinatamente con azioni semplici e naturali ai volti chiusi, le labbra serrate, gli occhi preoccupati degli adulti.
Titolo: L’ospite inatteso
Autore: Antje Damm
Editore: Terre di Mezzo
Dati: 2019, 32 pp., 12,90 €
Quando interviene la nostalgia, anche le pietre più grandi, quelle più granitiche, quelle blu, possono sgretolarsi. È infida, la nostalgia, talvolta dolce, sembra che non ci sia, che dopo un momento di intensità profonda, sia passata, si sia mescolata ad altro, magari alla rassegnazione, e invece ristà, quieta. Sedimenta e si radica. Basta un soffio di vento che sfiora il viso, basta una parola catturata per caso in mezzo al vociare, basta uno sguardo; la nostalgia riaffiora, si fa largo tra le fenditure dell’anima, tra le venature della pietra e si manifesta, prorompente, autonoma, incontrollabile. […continua a leggere]
Cath Howe mi ha rapita. Notte tarda, sonno che bussa insistente alle porte dei miei occhi, eppure dalla prima pagina la narrazione fresca, accudente, mai retorica, mi ha avvinta a lungo. Non mi succede spesso, anche perché mi pongo nei confronti dei romanzi contemporanei degli ultimi anni con una certa diffidenza per ragioni che non considero qui proprio perché devo giustizia a questa storia che si discosta dalle altre per tono, per timbro, per cura. Ella avrebbe tutti i motivi per essere vittima delle contingenze e di se stessa: si è appena trasferita con la madre e il fratellino in una nuova città, il padre è in prigione per truffa e ci resterà a lungo, la scuola è nuova, le amiche anche e un brutto eczema le tormenta le notti, i giorni, le mani. […continua a leggere]
Belli questi Tantibambini, per citare Munari; sono tanti e diversi, sono vitali, imperfetti, unici, si muovono sulla pagina nel pieno delle loro peculiari identità, di una pienezza che è sfumata al contempo, che arriva e poi sfugge, che gioca in armonia con la pagina e con il lettore, che non fatica a riconoscersi in un bimbo o in quell’altro ma anche in questo qui. Proprio questo qui. […continua a leggere]
Migrazioni, di Mike Unwin, Jenni Desmond – 2019, Editoriale scienza
Migrazioni gode dell’innegabile fascino dei libri a carattere naturalistico che intrecciano a informazioni scientificamente attendibili una narrazione che trova proprio nell’aderenza alla realtà la sua poesia. In copertina si staglia un uccello, simbolo degli animali migranti per eccellenza. Ad ali spiegate e ferme plana tra la pioggia, sotto di lui il mare. Ma all’interno, doppia pagina dopo doppia pagina, le migrazioni sono di tutte le specie: terrestri, marine, volanti. Rettili, insetti, mammiferi, pesci.
Migrazioni, di Mike Unwin, Jenni Desmond – 2019, Editoriale scienza
Uno strano animale, dallo sguardo stanco, la schiena ricurva di peso e pensieri, trascina una grossa valigia. Arriva scalando una montagna che sembra essere l’ultimo ostacolo da superare dopo un lungo viaggio. Passando, attira lo sguardo degli animali del luogo: una gallina, una volpe, un coniglio. La loro curiosità prende la strada lunga e indaga sullo strano animale, ma in maniera indiretta. Si chiede, la gallina, che cosa ci sia dentro la valigia. La risposta dello straniero la lascia di stucco. Nella valigia c’è una tazza. Ma non solo una tazza, anche un tavolino e una seggiola, e una piccola capanna che è la sua casa. La valigia contiene tutta la sua casa. [… continua a leggere]
Cosa c’è nella tua valigia?, di Chris Naylor-Ballesteros – 2019, Terre di Mezzo
Il balcone, di Kalina Muhova, Atanas Dalchev – 2019, Tunuè
Surreale che non sia data a sé stessi la possibilità della luce, dell’aria. Surreale la sensazione che avvolge nel momento in cui si svela la presa di coscienza dell’indifferenza, del non saper guardare oltre, del non cercare l’altro e l’altrove. Smarriscono gli ultimi versi della poesia di Atanas Dalchev, Il balcone (1928), e lo fanno con disinvolta mestizia, instillano con naturalezza una nostalgia dura a dissolversi. […continua a leggere]
Il balcone, di Kalina Muhova, Atanas Dalchev – 2019, Tunuè
Questa storia incomincia con un palombaro, che ha un titolo e un nome, capitano Samofar, che danza lieve sul fondo del mare. Un mare che è verde e del suo verde tinge anche le alghe, i pesci, lo squalo che stava passando oltre ma poi torna sulle sue nuotate e realizza che stava per farsi sfuggire un bel bocconcino. Non ha fatto i conti con Emil, il polpo gentile, però, che interviene in suo aiuto salvandogli la vita. […continua a leggere]
Emil, il polpo gentile, Tomi Ungerer – 2019 Lupoguido
In Topor tutto è estremo. È estremo il surrealismo, è estrema, ed estremamente complessa, la semplicità, è estrema, come in questo caso, la solitudine. Ma questo è anche il caso della dolcezza; della dolcezza tipica di certe fiabe, in cui basta un nulla, basta una piuma, per sfiorare la situazione più drammatica e cospargerla di un velo di morbidezza, attenuandola, dissolvendola.
Il bambino tutto solo, di Roland Topor – 2019 Vanvere edizioni
Quando ho parlato di Remy Charlip su queste mie pagine ho sempre sottolineato come fosse meravigliosa e sorprendente la capacità di piroettare in egual misura e con egual talento tra il tratto della matita e le volute nell’aria. Parlavo di ritmo ma anche di approccio al foglio, parlavo di gestione dello spazio e di repentini cambi d’azione resi con la stessa maestria, la stessa consapevole, autorialità. […continua a leggere]
Dove sono tutti?, di Remy Charlip – 2019, Orecchio acerbo
I libri di Oliver Jeffers sono sempre belli. Il cuore e la bottiglia oltre ad essere bello è anche struggente, malinconico. Per raccontarlo parto, come molto spesso ho fatto negli ultimi mesi, dalle risguardie. Quelle d’apertura, di un bell’azzurro su fondo panna, raccontano del legame tra nipoti e nonni, tra i bambini e certi adulti capaci di porgere un orecchio attento (e giocoforza ancora un poco acerbo) alle domande dei piccoli: quelle esclamate per la meraviglia, quelle sussurrate, quelle del quotidiano, quelle del surreale.
Il cuore e la bottiglia, di Oliver Jeffers – 2019, Zoolibri
Ein Apfelbaum in Bauch, Les éditions de la courte échelle, Canada, Simon Boulerice, illustrato da Gerard DuBois – Diogenes
Succede di dirlo ai bambini, con tono fermo ma intenzioni scherzose. Lo dici tu che sei grande e loro, piccini, ci credono. Resta in una parte della loro testolina e, a volte, quando diventano grandi, lo ripetono anche loro ai propri bambini, con tono fermo e intenzioni scherzose. Si dice con leggerezza “tieni la mela, ma fai attenzione a non ingoiare i semi o ti crescerà un albero nella pancia!”; oppure si dice “ecco la tua mela, mi raccomando non sprecare nulla, ché della mela si mangia tutto, tranne il picciolo, ricorda”. E, sebbene sommesse, le tue parole resteranno a imperitura memoria, perché nessuno vorrebbe mai vedersi crescere un albero nella pancia e tantomeno sperimentare di ingoiare un picciolo! [… continua a leggere]
Ein Apfelbaum im Bauch, Les éditions de la courte échelle, Canada, Simon Boulerice, illustrato da Gerard DuBois – Diogenes
A di Più Libri Più Liberi 2019, la fiera della piccola e media editoria di Roma, ho avuto l’occasione di intervistare Colas Gutman e Marc Boutavant, gli autori di Cane Puzzone, Una serie di libri per lettori dai sette anni in su, avvincente, illustrata, ricca di avventura, amicizia, coraggio e realtà. In Francia Cane Puzzone e il suo amico Spiaccigatto sono molto celebri, in Italia le loro rocambolesche avventure, edite da Terre di Mezzo, sono ricercate e molto gradite dai bambini e dalle bambine ormai a proprio agio con la lettura autonoma.
Da qualche settimana è in libreria l’ultima avventura a tema natalizio: Buon Natale Cane Puzzone! ( di Colas Gutman e Marc Boutavant , Terre di mezzo Editore).
È la vigilia di Natale: Cane Puzzone e il suo fedele amico Spiaccigatto cercano una casa che li ospiti almeno per quella sera, anche solo per poter trascorrere in un luogo diverso dal solito bidone la sera della vigilia, e le cose sembrano andare proprio per il verso giusto. Una ragazzina, infatti, li sceglie come regalo per il fratello. Lui, però,si rivela antipatico e cattivello, trovandoli disgustosi, li mette in vendita su bancarella di un mercatino delle pulci. Qui conoscono la piccola Cuordilana che ha perso la sua bambola, va da sé che se c’è una bambina in difficoltà Cane Puzzone non si tira mai indietro…
Queste le domande che ho posto a Colas Gutman, autore di Cane Puzzone
Cosa ti piaceva leggere da bambino?
Come romanzi, leggevo essenzialmente le storie del Piccolo Nicolas, e poi tantissimi fumetti che trovavo divertenti: Asterix, Iznogoud*, Oumpah-Pah. Ero un grande fan di Goscinny e lo sono ancora. E anche di Franquin, con il suo Gaston Lagaffe e il Marsupilami. Questi libri erano le mie “bolle protettive” di tenerezza e divertimento.
Il fatto che Cane puzzone non ottenga mai un riscatto completo ma solo piccole gratifiche dal destino non è un po’ crudele? Oppure contribuisce a rafforzarne la personalità naif e intrepida?
Quando scrivo le avventure di Cane Puzzone penso spesso a François Truffaut che, nel suo “I 400 colpi”, porta il personaggio di Antoine Doisnel a vedere il mare. È un sollievo sia per lui sia per lo spettatore. In ogni storia di Cane Puzzone, dopo la scoperta della durezza del mondo, ritrova sempre il confort del suo bidone della spazzatura. È un modo per ricondurlo al suo bozzolo e dar sollievo sia a lui sia ai miei lettori. Cane Puzzone non ha bisogno di redenzione: non è lui a dover cambiare, ma è la società a doverlo accettare così com’è. A volte capita che i personaggi che compaiono nelle sue storie imparino da lui e cambino i loro comportamenti, però anche in questi casi non parlerei di redenzione ma piuttosto di educazione: al rispetto degli altri, alla difesa dei diritti degli animali e delle persone più fragili, ma sempre umoristicamente, in modo da non risultare mai troppo pesanti.
Hai un lettore ideale o invece procedi senza schemi predefiniti?
La mia prima editor a L’école des loisirs, Geneviève Brisac, mi diceva sempre che avrei dovuto scrivere il libro che mi sarebbe piaciuto leggere da bambino. Questo è un altro esercizio interessante, non per cercare il libro perfetto ma il lettore ideale. Questo lettore ideale lo immagino sempre sufficientemente aperto per poter leggere la realtà con umorismo, e saper ridere alle battute che sfuggono agli adulti. A volte ho l’impressione di essere seduto agli ultimi banchi e di scrivere come un ragazzaccio e questo mi aiuta a non avere troppe inibizioni e non dare lezioni ai miei lettori.
Cane Puzzone e il suo amico Spiaccigatto, e con loro le disavventure grottesche di cui si fanno protagonisti, fanno ridere di pancia i bambini e sorridere sornioni gli adulti che nelle tue storie trovano molta ironia. È pensando a loro, agli adulti, intendo che ne hai seminata così tanta tra le pagine?
Quando scrivo non penso mai agli adulti, ma sempre ai bambini o al bambino che continuo ad essere. Tuttavia, quello che scrivo per i ragazzi deve far ridere anche me, come adulto. Non sono mai un osservatore esterno che si dice “mah, a me fa a malapena sorridere, ma sicuramente farà ridere i ragazzi”.
I bambini imparano molto presto l’ironia, è questo risulta evidente quando li senti parlare tra di loro. Sono molto incisivi, spietati e colgono sempre nel segno. E non si tratta di una particolarità francese. Spesso invece gli adulti sono troppo protettivi e per i libri d’infanzia scelgono un umorismo troppo cauto e lontano da quello quotidiano dei ragazzi, che invece adorano l’umorismo. Io mi ricordo ancora dei dialoghi dei Fratelli Marx di quando avevo 6 o 8 anni. L’irriverenza di Groucho mi faceva già ridere più della mimica di Harpo. Non si tratta di ricerca di stile, ma di operare uno slittamento che permette di rendere la vita più divertente e sopportabile.
I personaggi adulti sono irrimediabilmente mediocri, quando non crudeli. I bambini anche, talvolta, ma più spesso complessi e sfaccettati, mai esplicitamente eroici, sempre intensamente tragici. Giochi molto con l’ambiguità rendendo complessa una narrazione che invece scorre via briosa e frizzante… insomma, questa non è una domanda, è più un complimento, ma per ottenere questo risultato così fresco scrivi di getto o sottoponi i tuoi testi a molte revisioni?
Scrivo e riscrivo moltissimo. Faccio almeno una decina di versioni per ogni libro di Cane Puzzone. Mi piace molto mettere i bambini e gli animali a confronto con la stupidità e con le norme di alcuni adulti, ma lavorare sull’idiozia umana richiede molto impegno!
Domande per Marc Boutavant, l’illustratore di Cane Puzzone
Ho notato che quando vuoi mettere in risalto la puzzosità di Cane puzzone, e anche del suo amico Spiaccigatto che sebbene più lindo comunque condivide con lui un bidone della spazzatura, usi come sfondo dei bei colori lindi e pinti, soprattutto il rosa. Come gestisci l’uso del colore e cosa ti fa scegliere per l’uno o per l’altro in una illustrazione?
Cane Puzzone e Spiaccigatto navigano in acque torbide, o anche luride, ed è necessario che appaiano più “puliti” di quello che li circonda. Quindi scelgo spesso di disegnare i luoghi in cui si muovono e i personaggi con cui hanno a che fare in maniera un po’ cupa, utilizzando ad esempio dei colori scuri, per far risaltare la tenerezza dei due eroi rispetto a tutto ciò che li circonda.
In effetti questo dipende molto dalle espressioni e i colori che utilizzo… Ad esempio quando non utilizzo il rosa per la lingua di Cane Puzzone, lui sembra molto meno gioioso! Inoltre nella prima versione Cane Puzzone era molto più sporco e meno carino. L’ho fatto evolvere rapidamente perché trovavo troppo pesante che i bambini dovessero avere a che fare con un mondo così terribile (ma anche buffo e sarcastico) senza avere un personaggio accattivante a cui affezionarsi.
Quante prove hai fatto per realizzare il perfetto Cane Puzzone? L’ha sempre immaginato così?
Dal momento in cui gli esseri umani hanno iniziato ad interessarsi alla rappresentazione degli animali, ci sono stati moltissimi Cani inventati, disegnati, scolpiti o animati e durante la mia infanzia ho fatto il pieno di questi sacchi di pulci. Per Cane Puzzone ho cercato una forma che assomigliasse il più possibile a uno strofinaccio per i pavimenti. E quando l’ho trovata ero contento, avevo l’impressione di aver inventato qualcosa, di essermi rinnovato… e poi l’indomani mi sono reso conto che era lo stesso cane che disegno da quindici anni in un fumetto che si chiama Ariol, di diverso aveva solo gli occhi.
Ci sono un cane e un gatto reali cui ti sei ispirato?
Posso anche inserire Cane Puzzone in una genealogia, con il cane di Lucky Luke come genitore e il cane della Maison de Toutou e Leonard, il cane dell’île aux enfants* come parenti…
Cosa preferisci illustrare, i momenti dolci e teneri in cui il nostro manifesta appieno la sua generosità o quello grotteschi?
Mi capita spesso, e da molto tempo, di disegnare scene alquanto tenere e tranquille. Cane Puzzone mi ha dato la possibilità di lavorare anche su una certa cattiveria rozza e grottesca e su ambientazioni un po’ tristi o squallide. Non amo crogiolarmi in questo genere di temi, a meno che non siano controbilanciati da personaggi come Cane Puzzone e Spiaccigatto, che spero siano più luminosi rispetto all’oscuro mondo in cui si muovono.
*Iznogoudin Italia pubblicato da Panini con lo stesso titolo, e da cui è stata tratta la serie di cartoni “Chi la fa l’aspetti!”, andata su Canale 5 e poi su Italia 1, nella metà degli anni 90; Oumpah-Pah, serie a fumetti umoristica che venne pubblicata anche sul Corriere dei Piccoli alla fine degli anni ’60. I tre fumetti citati sono tutti di René Goscinny
*due trasmissioni francesi per bambini, andate in onda dal 1967 al 1982, che avevano come protagonisti dei pupazzi animati
Trovate questo libro tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma.
Cath Howe mi ha rapita. Notte tarda, sonno che bussa insistente alle porte dei miei occhi, eppure dalla prima pagina la narrazione fresca, accudente, mai retorica, mi ha avvinta a lungo. Non mi succede spesso, anche perché mi pongo nei confronti dei romanzi contemporanei degli ultimi anni con una certa diffidenza per ragioni che non considero qui proprio perché devo giustizia a questa storia che si discosta dalle altre per tono, per timbro, per cura.
Ella avrebbe tutti i motivi per essere vittima delle contingenze e di se stessa: si è appena trasferita con la madre e il fratellino in una nuova città, il padre è in prigione per truffa e ci resterà a lungo, la scuola è nuova, le amiche anche e un brutto eczema le tormenta le notti, i giorni, le mani.
Ciononostante della vittima non ha nessuna caratteristica retorica. Compie tanti brutti sbagli; per insicurezza si lascia manipolare dalla ragazzina più popolare della scuola, mente, infrange le promesse eppure nel leggerla la si trova integra, affidabile, dolcissima.
La narrazione è costruita con capitoli che si aprono atipicamente sulla sinistra, con delle lettere in corsivo indirizzate al padre. Lettere che vanno in un’unica direzione e che sembrano destinate a non aver mai risposta. Lettere piene di domande che affermano, punti interrogativi che indagano nel proprio quotidiano raccontandolo, e piene di fotografie.
Perché Ella è una bravissima fotografa, brava con lo sguardo, brava nel gusto della composizione delle immagini, così come della realtà. Ella, con il suo sguardo talentuoso, riesce a ricomporre la realtà come se dovesse sistemarla per realizzare finalmente una fotografia che la ritragga vera, bella.
Ogni personaggio ha il suo spazio, il proprio tempo. Soprattutto la propria onestà nell’essere sincero, nell’essere impietoso ed egoista, nell’essere fragile, nel cambiare idea, nel restare fermo in quella che sente proteggerlo. Sono umani, veri, fotografati nell’istante perfetto della loro imperfezione.
Una volta io e Jack abbiamo guardato su internet il video di un cocomero che veniva fatto esplodere. Era così al rallentatore che si poteva vedere il momento in cui la buccia si spaccava e il frutto si apriva e andava in pezzi, prima che la polpa e il succo saltassero per aria in una pioggia di poltiglia rosa. Quella ero io. Lidia mi aveva fatto esplodere e tutti i frammenti cercavano di assumere la forma di Ella, ma non c’era più nessuna forma, solo schegge volanti.
Il titolo originale è Ella on the outside e l’essere ai margini, o meglio il sentirsi tale, di Ella ricorre spesso nel corso del romanzo, così come la sua capacità di frastagliarli, adattarli mano mano a se stessa e infine oltrepassarli, con la propria determinazione, il sostegno di una famiglia amorevole, finalmente libera.
Titolo: Il segreto di Ella
Autore: Cath Howe (Traduzione di Gioia Sartori)
Editore: Terre di Mezzo
Dati: 2019, 249 pp., 10,00 €
Uno strano animale, dallo sguardo stanco, la schiena ricurva di peso e pensieri, trascina una grossa valigia. Arriva scalando una montagna che sembra essere l’ultimo ostacolo da superare dopo un lungo viaggio. Passando, attira lo sguardo degli animali del luogo: una gallina, una volpe, un coniglio. La loro curiosità prende la strada lunga e indaga sullo strano animale, ma in maniera indiretta. Si chiede, la gallina, che cosa ci sia dentro la valigia. La risposta dello straniero la lascia di stucco. Nella valigia c’è una tazza. Ma non solo una tazza, anche un tavolino e una seggiola, e una piccola capanna che è la sua casa. La valigia contiene tutta la sua casa.
Cosa c’è nella tua valigia?, di Chris Naylor-Ballesteros – 2019, Terre di Mezzo
Lo strano animale non da alcun fastidio a nessuno, risponde con garbo a tutte le domande, desidera solo riposare, si accoccola di fianco alla valigia, che contiene tutta la sua casa, e dorme. La gallina lo guarda diffidente dall’alto in basso: mai visto un animale così. Il coniglio conviene con lei, è ben strano, ma secondo lui bisognerebbe lasciarlo riposare. La volpe no, proprio non si fida. Sguardo sottile punta il naso: devono guardare nella valigia.
Cosa c’è nella tua valigia?, di Chris Naylor-Ballesteros – 2019, Terre di Mezzo
E cedono tutti e tre al malanimo di uno solo. La valigia si rompe, la tazza si rompe, la fiducia si rompe. Mentre tutto si rompe, due cose tengono ogni cosa assieme, restando integre: la verità e i sogni.
I sogni dell’essere strano sono vividi e si aggrappano alla verità, che attraversa gli animi dei tre, quando se la ritrovano davanti sotto forma di una tazza, rotta, e una foto. Attraversa gli animi e li scuote, muovendoli verso la presa di coscienza, l’accoglienza.
Cosa c’è nella tua valigia?, di Chris Naylor-Ballesteros – 2019, Terre di Mezzo
Una storia narrata con semplicità che si nutre di empatia e illustrata con una semplicità altrettanto netta, con figure dai contorni sfumati, che ne suggeriscono lievi movimenti, i colori pieni.
Titolo: Cosa c’è nella tua valigia?
Autore: Chris Naylor-Ballesteros
Editore: Terre di Mezzo
Dati: 2019, pp. 32, 15.00 €
Rebecca Stead ha una qualità che avevo apprezzato anche leggendo Segreti e bugie: riesce a mettersi in un angolino con il suo bagaglio di esperienza e di adulto, e osservare i ragazzi, non vista. Senza intervenire mai, senza mettere in guardia, senza porsi mai in maniera giudicante.
E queste sono qualità che si apprezzano specie quando si applicano anche alla narrazione, che è limpida, non interventista, appunto, che riesce a comunicare tutta la complessità dei rapporti tra ragazzi dodici/tredicenni, tutto l’impasto ingarbugliato di passioni, paure, sentimenti. Rebecca Stead li mette sulla pagina così come sono, o sarebbero, se li si osservasse da un angolino, non visti.
L’amore sconosciuto. Dettaglio della copertina, ill. di Marcos Chin
Bridge è sopravvissuta a un incidente stradale gravissimo: andava sui pattini quando è stata investita. Ricorda poco e niente di quel momento ma un’infermiera, durante la lunga degenza che l’ha tenuta lontana da scuola per un anno intero, le confida che se è sopravvissuta a quell’incidente terribile è perché la sua esistenza ha uno scopo.
Bridge è inquieta, talvolta, per questo suo “scopo”, altre volte vi si aggrappa, specie quando si sfilacciano, e poi si ricuciono e poi cambiano ancora, i rapporti di fiducia e amore con le sue due amiche di sempre, Tab ed Emily, che ha ritrovato come se nulla fosse cambiato durante la sua assenza e con le quali ha stretto un patto: non litigare mai. Eppure qualcosa è successo e non è solo l’incidente, si tratta anche del naturale processo di crescita che giocoforza interviene a limare, ammorbidendo, o ad appuntire, esacerbando.
Bridge, conosce poi un ragazzo, Sherm, al quale è affidata una narrazione parallela, dal proprio punto di vista, parlata per mezzo delle lettere scritte, e mai spedite, al nonno che li ha abbandonati per cambiare vita. Con lui, amatissimo, Sherm aveva un rapporto di intimità equilibrata e bella. Ora che non c’è più, che ha lasciato dietro di sé la sua vita com’era e una scia di dolore in chi è rimasto, gli rivolge con la stessa schiettezza dell’affetto domande complesse e dal senso profondo che pone a lui, come a se stesso.
Ma la mia domanda è: lo sconosciuto è il nuovo te, o la persona che ti sei lasciato alle spalle?
C’è una ragazza che parla in seconda persona, a San Valentino, che si percepisce, che è, più matura rispetto alle altre. Il cui essere “più grande” implica un altro tono, una prospettiva diversa, con tanti substrati. E infine c’è un ragazzo, Patrick, che entra in questa complessità quotidiana e narrativa con un cellulare, un amore acerbo e delle foto intime che finiscono nella rete del pubblico, utili allo sguardo crudele e superficiale di tutti.
Un romanzo che definirei composto da veli su altri veli, come una cipolla. Si sfoglia, strato dopo strato, fino a un nucleo profumato e pungente, intensissimo.
Titolo: L’amore sconosciuto
Autore: Rebecca Stead, (Traduzione Claudia Valentini)
Editore: Terre di mezzo
Dati: 2019, 313 pp., 14,90 €
Genie ed Ernie sono in vacanza dai nonni in campagna, in Virginia. I genitori devono partire per la Giamaica per una vacanza che li aiuti a ritrovarsi, a cercare di porre rimedio alla distanza che il tempo ha messo tra di loro (da qui il “devono”). Per i due fratelli lasciare New York per la Virginia rurale è uno strappo consistente in abitudini e contesto; per Genie non avere il wi-fi, per uno come lui che a Google pone almeno tre domande al giorno, è cosa inconcepibile, per Ernie non avere un pubblico nutrito a considerarlo fico, altrettanto fastidioso, ma tant’è. Senza fronzoli o periodi di adattamento i due fratelli si ritrovano a vivere in una campagna solitaria, con una nonna energica coltivatrice di piselli e un nonno cieco, che indossa sempre gli occhiali da sole e nasconde più di un segreto.
In quella che non tarda a diventare la routine dei due ragazzi, si inserisce una ragazza che subito fa breccia nel cuore di Ernie e che per Genie rappresenta una possibilità di rimanere connesso, di avere qualche risposta: a casa sua c’è il wi-fi. Ma anche una madre patologicamente ipocondriaca. Attorno a queste case popolate da sofferenze e misteri, boschi fitti e una natura che si conserva selvaggia e con la quale gli uomini interagiscono con ferina spontaneità (il nonno di Genie prima di diventare cieco era un cacciatore, così come a caccia, perfino di scoiattoli, va il suo migliore amico).
Genie è di natura curioso e molto empatico. Per una distrazione rompe una macchinina rossa, oggetto molto prezioso per la nonna; da questo imprevisto una scoperta amara, la morte dello zio in guerra, che sarà la maglia di aggancio tra lui e il nonno, che di quella morte non ha ancora maturato il dolore e per la quale si sente in colpa.
Un passo incerto dopo l’altro, Genie scopre che ogni adulto con il quale ha a che fare nasconde in sè molte fragilità e che esse paradossalmente possono rivelarsi terreno fertile tra l’età adulta e l’infanzia, la fanciullezza di cui lui è invece l’orgoglioso portatore. Con molta pazienza e altrettanto amore, riesce a far uscire il nonno dalla casa in cui si era recluso, riesce a darsi spazio, coraggio.
La principale maestria dell’autore, Jason Reynolds, è quella di rendere vere le voci di Genie, Ernie, del nonno; di non indugiare in ricami, di passare lievemente, invece, sulla realtà, con un tono e un timbro che induce il lettore ad addentrarsi in questi boschi, in cui i Wood, grandi e piccoli, tra intraprendenza e rischiosi riti di passaggio, fronteggiano e vincono le proprie paure.
Titolo: Niente paura, Little Wood!
Autore: Jason Reynolds (traduzione Giuseppe Iacobaci)
Editore: Terre di Mezzo
Dati: 2018, 328 pp., 14,90 €
Questo libro incomincia dalla copertina. Come tutti i libri, direte voi; sì, vero, ogni libro incomincia a suggerire qualcosa di sé già dalla copertina, ma questo albo di Loïc Froissart sin dalla copertina racconta. E racconta la storia di una baita, piccola, perlomeno se rapportata al bosco in cui, vista dall’alto, è immersa, col tetto azzurro che fa capolino in un mare soffice di verde, di alberi, un po’ dita, un po’ spugne gommose, un po’ rocce tondeggianti. Ché poi a definire ‘rocce’ degli alberi ci vogliono voli arditi di fantasia, ma volando davvero, quella è l’impressione.
E questo mare roccioso e morbido di alberi invita ad avvicinarsi, attrae, come fanno di solito questi luoghi misteriosi, solitari e bellissimi. E dunque è piuttosto semplice aprire il libro e addentrarsi in esso, sulle sguardie in cui ci si avvisa: questa baita non è facile da trovare.
Ma non impossibile.
E infatti, eccola lì, col suo patio rosso, il tetto azzurro che in volo avevamo intravisto, un bel mucchio di legna da ardere sotto la tettoia, una sedia a dondolo e un libro, giallo, su uno scalino a tenere il segno.
Una baita per due, di Loïc Froissart – 2018 Terre di Mezzo
L’escursionista arriva, si china a raccogliere il libro e ci guarda stupito, sulla pagina di sinistra, mentre in quella di destra, contemporaneamente, un orso s’affaccia dal resto e ci guarda stupito. Di chi è questo libro? Si chiede il primo, Ma… ha preso il mio libro? Ci chiede il secondo.
Una baita per due, di di Loïc Froissart – 2018 Terre di Mezzo
E noi, cominciamo a chiederci, piuttosto: Ma… di chi è questa baita? è presto detto. È una baita per due. Con più consapevolezza da parte di uno piuttosto che dell’altro, ma bella, solitaria, accogliente; per due che a parte per qualche pelo, sono molto simili in quanto a gusti e attenzioni.
La mia baita è nascosta in mezzo ai boschi. È piccina ma io ci sto bene: non conosco un posto più tranquillo. Peccato per le visite di quello strano essere umano… crede che la baita sia sua!
Arrivare, partire, congedarsi da un luogo caro, vivere di tranquillità e godere della solitudine, della natura. È di un verde avvolgente questa storia, è lieve e buffa. Fa sorridere, racconta con tenerezza dalla copertina alla quarta.
Titolo: Una baita per due
Autore: Loïc Froissart (traduzione di Giulia Genovesi)
Editore: Terre di Mezzo
Dati: 2018, 28 pp., 12,90 €