E vissero tutti cattivi e scontenti

J. E. Millais, Isabella, 1848-49, Liverpool Walker Art Gallery.
J. E. Millais, Isabella, 1848-49, Liverpool Walker Art Gallery.

I fratelli di Lisabetta uccidon l’amante di lei: egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato; ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico, e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.

Ho scelto Isabella di Millais per considerare quello che racconterò in queste righe sulla malvagità di intenti, sui finali crudeli, feroci, ingiusti, sui protagonisti lividi che del loro livore tutto imbrattano, anche il destino dei limpidi, anche il coraggio, anche la lealtà. E vincono. Perché no, non è detto che ogni fiaba debba concludersi con un “e vissero tutti felici e contenti” così come non è detto che debbano incominciare con un “c’era una volta”. Lo schema della malvagità si ripete, c’è stato più volte, e proprio in Lisabetta da Messina, dalla Quarta giornata del Decameron di Giovanni Boccaccio, infuso di realtà come in tutte le novelle, raggiunge una soglia molto complessa da metabolizzare.

Seduti attorno a una tavola imbandita, agiscono tutti i protagonisti della novella boccacciana, raccontando in un’unica immagine l’intera vicenda. In primo piano, sulla destra, sta Lisabetta, lievemente curva, come ad ascoltare il sussurro di Lorenzo che le porge un piatto con della frutta fresca. Lo sguardo di Lorenzo è immoto e altrove, fa già parte di un piano che non è più quello della realtà, che ci sussurra di morte. Anche gli occhi di Lisabetta rimangono quieti, in attesa di rivelazioni sostanziali, mentre la mano sinistra si posa sul capo di un cane fedele che si ripara sulle sue gambe. Alle spalle di entrambi un servo sembra a disagio, come se potesse e non riuscisse invece ad agire, mentre di fianco a Lorenzo una vecchia rivolge loro uno sguardo obliquo, di apprensione e commiserazione. Sempre in primo piano, sulla sinistra, uno dei fratelli di Lisabetta è ritratto nell’atto di calciare il cane, esplicitando i propositi malvagi di cui, assieme all’altro fratello, è portatore. Infine, il secondo fratello rosicchia le unghie pregustando l’attesa del gesto omicida mentre, nel pieno agire della crudeltà, ne vagheggia, rimirando un bicchiere di vino.

La novella, così come il dipinto, si svolge rapidamente, come senza possibilità d’azione, i buoni da una parte, i cattivi dall’altra si fronteggiano e studiano e già nel farlo i buoni sanno di dover soccombere. Si applica in entrambe le circostanze una hitchcockiana sospensione dell’attesa che dilata il tempo dell’azione e lo svela, anticipando con lentezza un finale annunciato.

Il principe cigno e altre undici fiabe segrete dei fratelli Grimm, illustrazioni di Fabian Negrin, Donzelli editore, 2014
Il principe cigno e altre undici fiabe segrete dei fratelli Grimm, illustrazioni di Fabian Negrin, Donzelli editore, 2014

Altra storia, altri fratelli. Siamo tra le pagine delle fiabe dei fratelli Grimm illustrate da Fabian Negrin. La storia è quella de La mano col coltello. A muoverne le fila l’invidia, tra tutte le manifestazioni della crudeltà una delle più alte. La storia è piuttosto semplice, mentre complessi sono i risvolti violenti, di una violenza che è sempre gratuita ma qui lo diventa in modo piuttosto sconclusionato, andando a colpire due innocenti e sostituendo alle vessazioni di genere una ancor più irragionevole e spietata crudeltà. La prima agente è la madre. Madre di quattro figli, di cui tre maschi e una femmina, tratta quest’ultima con la più totale indifferenza e la tormenta con inutili soprusi. La bambina ogni giorno è costretta a un lavoro faticoso tra la torba della brughiera e, per farlo meglio e più in fretta, la poveretta accetta di buon grado un gesto gentile da innamorato: un elfo della montagna le porge attraverso una fessura nella roccia un coltello dalle proprietà magiche (o forse semplicemente molto affilato) con il quale ella riesce a tagliare tutta la torba che le è necessaria. Al rientro bussa due volte sulla schiena della collina e l’elfo allunga la mano a riprendersi l’utensile. La ferocia della madre, che qui non è matrigna ma madre naturale, si alimenta del “successo” filiale tanto da inviare i fratelli a spiarne il percorso e le azioni. I tre, scoperto l’ingenuo escamotage, le sottraggono in malo modo il coltello e con esso mozzano la mano tesa dell’elfo che, convinto che la bambina l’avesse tradito, nessuno mai più vide.

Si tratta di crudeltà pasciuta alla biada dell’idiozia, ma non nuova alle fiabe di origine popolare che si nutrono di pregiudizi, di maschilismo, di brutalità. Nell’illustrazione di Fabian Negrin io leggo ancora di più, un tradimento ancora più profondo. I fratelli Grimm ci raccontano che l’elfo si sentì ingannato dalla bambina, ritenendola colpevole, non vedendo i reali autori dello scempio. Nella lettura, che si fa narrazione, della tavola in ecoline con glicerina di Negrin, però, ad altezza occhi, occhi grandi, attenti, che paiono proprio guardare, c’è un’ulteriore feritoia attraverso la quale l’elfo sembra rivolgere uno sguardo di premura alla fanciulla che, dall’altra parte, cautamente, afferra il coltello.

Sarebbe un allontanarsi consapevole, dunque, per una comprensibile paura, che lascia la bambina completamente sola. Il piano della narrazione è diviso tra realtà e magia ed entrambi ci sono manifesti, assistiamo da spettatori inermi a ciò che ai protagonisti della storia è precluso. E inermi ci allontaniamo, smarriti, persi.

Robert Browning, Il pifferaio magico di Hamelin, illustrazioni di Antonella Toffolo, Topipittori, 2007
Robert Browning, Il pifferaio magico di Hamelin, illustrazioni di Antonella Toffolo, Topipittori, 2007

La crudeltà che acceca è quella dell’avidità, dell’avarizia del porre davanti a ogni cosa, anche al sollievo, la tensione a ingannare il prossimo, a tessere trame di cupidigia. Il 22 luglio del 1376, nella città di Hamelin, qualcosa di terribile avvenne. Antonella Toffolo lo illustra in un nero venato di bianco in una splendida edizione de Il Pifferio magico di Hamelin di Robert Browning. Tutti i bambini di quella città, come topi al seguito del variopinto pifferaio, sparirono tra le pieghe di una montagna e non fecero più ritorno. Si tratta di una leggenda popolare di radice germanica che cita varie fonti, una più o meno probabile dell’altra (la peste, le crociate dei bambini…): la città di Hamelin si ritrovò invasa da migliaia di topi, spietati, sudici, invadenti. Gli amministratori in pellicce di ermellino, spaventati all’idea di perdere gli agi cui erano avvezzi, accettano l’aiuto di un pifferaio, un agente magico capace, grazie a uno strumento altrettanto magico, di liberare la città e i suoi abitanti dalla pulciosa piaga. Ma lo fa solo in cambio di una ricompensa, che peraltro ben misera appare in confronto al risultato che promette di ottenere. Come nella più classica delle fiabe, laddove gli strumenti del reale perdono di efficacia, a una situazione disperata si pone rimedio con l’intervento del sovrannaturale. Il pifferaio mantiene la promessa ed esige la propria ricompensa, ma la crudeltà, dell’ingratitudine, avvolge e soffoca i propositi e oppone risate sconce a una richiesta legittima. La realtà vorrebbe che, come supposto dai governanti, la storia si concludesse qui: i topi sono morti annegati nel fiume Weser, non possono più tornare. Ma la magia non è così magnanima, conosce altre strade, e quella delle viscere della montagna sembra quantomeno plausibile. E qui la crudeltà si fa spietata e assordante, seguendo un suono mellifluo e affascinante all’orecchio. Tutti i bambini si accodano al pifferaio e al suo flauto magico, scomparendo per non far più ritorno, lasciando i genitori e la città in un dolore sordo e silenzioso.

Tra tutti gli autori di fiabe, Perrault è l’unico a negare il lieto fine, persino in Cappuccetto Rosso non conosce mezze misure “quel malanno di Lupo si gettò sul povero Cappuccetto Rosso, e ne fece un boccone” ed è maestro nel mettere a punto la sospensione dell’incredulità e nel dare credito al gusto della crudeltà manifesto in ogni bambino. Nella prefazione a I racconti delle fate di Carlo Collodi, Giuseppe Pontiggia ne sottolinea in più punti questi tratti distintivi, che rendono giustizia alla struttura fiabesca popolare e di tradizione orale europea.

I racconti delle fate, Carlo Collodi, illustrazioni di Gustave Doré, Adelphi, 1976
I racconti delle fate, Carlo Collodi, illustrazioni di Gustave Doré, Adelphi, 1976

Vera infatti è la paura, veri i soprusi, cocenti i tradimenti, violenti gli assassini, i rapitori. Non c’è molto da edulcorare quando a ballare una ridda sfrenata è la crudeltà. E Collodi è stato maestro nel non tradire questi toni crudeli ma schietti dei Contes perraultiani che conoscono protagonisti dai gesti efferati: Barba-blu, Il Lupo di Cappuccetto Rosso, il padre di Pelle d’asino. Assassini, bestie dagli istinti ferini, padri senza amore, privi di pudore, orribili.

Il bimbo ascolta, freme, e però astraendo al piano dell’irrealtà (sono solo fiabe) qualcosa riconosce: la verità. E qualcosa impara, e da qualcosa si difende: la crudeltà è del nostro mondo e spesso non si redime.

Storia del bambino buono – Storia del bambino cattivo , Twain, Olmos – 2013 Logos edizioni
Storia del bambino buono – Storia del bambino cattivo , Twain, Olmos – 2013 Logos edizioni

E infine c’è una storia, anzi due. Una è La storia del bambino buono e l’altra è La storia del bambino cattivo, entrambe sono di Mark Twain ed entrambe, assieme nello stesso libro, ma con versi diversi, sono illustrate da Roger Olmos e si incontrano a metà strada. Dunque, c’era una volta un bambino buono di nome Jacob Blivens. Egli era talmente buono che gli altri bambini stentavano a capirlo, anzi, non lo capirono mai. Jacob era ubbidiente, era onesto, era rispettoso. Forse l’unica sua pecca era che “credeva nei bambini buoni dei libri della scuola domenicale, riponeva in loro la massima fiducia […] e nutriva la nobile ambizione di figurare” in uno di essi. Ma essere buoni, specie nei libri, può rivelarsi fatale. Lo dice Twain che adduce alla bontà più morti che alla tisi, e lo diciamo anche noi, considerato quanto letto e scritto finora. E infatti Jacob conosce un destino avverso, avverso sotto molteplici aspetti. E infine, di una fine truculenta che non starò qui a raccontare, muore.

E, dunque, c’era una volta un bambino cattivo di nome Jim. Ladro, violento, dispettoso fino al midollo. Jim era cattivo ma “tutto gli andava diversamente da come succede ai cattivi James dei libri”. Perché tutto gli andava meravigliosamente e sanguinosamente (per gli altri) bene. Anche il fine è lieto per Jim, “il peccatore nato sotto una buona stella”.

Scavando nell’archivio della mia memoria, di cattivi che non si redimono, di cattivi che hanno la meglio, di cattivi che si giovano della propria malvagità ne ho scovati tanti. Alcuni li ho dovuti tralasciare per il loro non essere davvero e profondamente cattivi (penso a Cagliuso, rinarrata da Giambattista Basile, cattivo di ingratitudine), altri hanno condito di brividi la mia anima bambina, quella che mi trattiene, e dolcemente, in quella proiezione di mondo che sono le fiabe, quella che ho sperimentato da bambina, passeggiando, e spesso, tra pagine impervie a passo piuttosto incauto. Tra tutti i protagonisti malvagi che ho incontrato, quello che reputavo e reputo più disturbante è il destino crudele, perché esso implica un fatalismo che esula dall’oggettività, sia essa reale, sia essa fiabesca. E fa paura, molta più di quanta potrebbe farne l’orco di Pollicino, giacché da quello, e sin da bambini, abbiamo imparato a difenderci a suon di briciole, di maniche rimboccate e trovate geniali.

Articolo pubblicato per la prima volta su Libri Calzelunghe nel 2016, cliccando su questo link e accedendovi potrete trovare anche la bibliografia relativa a questo pezzo e molti altri articoli rientranti nel tema dei Libri disobbedienti

Matilde contro Pippi. Compiti per le vacanze sì o no? ) – #libricalzelunghe

Immagino un dialogo ideale tra Matilde e Pippi, l’una afferma che nulla di meglio c’è se non stare comoda nella propria stanzetta con una bevanda da sorseggiare leggendo uno, due, tre libri, l’altra ribatte con una pernacchia e si allontana in groppa a Zietto per esplorare in allegria il bosco dietro casa. […]

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Le vacanze di Tom Sawyer

l’articolo integrale è su Libri Calzelunghe

Matilde contro Pippi. Compiti per le vacanze sì o no?

La scuola di Mario Lodi. Lasciare i banchi vuoti e guardare il mondo dalla finestra

L’articolo integrale è pubblicato su Libri Calzelunghe Letteratura per ragazzi… per filo e per segni. Rivista di approfondimento di letteratura per l’infanzia Autunno, 4 B. L. Schedario A, Mario Lodi e i suoi ragazzi, 1974
Autunno, 4 B. L. Schedario A, Mario Lodi e i suoi ragazzi, 1974

I bambini hanno una loro vita segreta, una loro filosofia, scriveva Mario Lodi nel 2011, nella prefazione a Cipì, in occasione dei cinquanta anni della celebre storia. Potrei partire da qui, per portare con molta semplicità il discorso a quello che è il principio fondante del metodo di Lodi: l’idea che il bambino e la sua quotidianità siano al contempo strumento e fonte della propria cultura.

Il bambino, fin dalla nascita, attraverso l’esperienza è “produttore di cultura”: a scuola egli porta le sue capacità di “ricercatore”, il suo bagaglio di esperienze già organizzate, una sua concezione del mondo [Mario Lodi e i suoi ragazzi, Il mondo (1), Universale Laterza, 1979].

Il Mondo, 21 ottobre 1974
Il Mondo, 21 ottobre 1974

Potrei partire da qui, invece questa scuola straordinariamente moderna sarà oggetto di questo scritto più avanti, perché leggendo, entrando nelle esperienze dei bambini di Vho, nella loro vita scolastica, ho incontrato una comunicazione in merito ai libri consigliati ai bambini e alle bambine (che da questo momento in poi definirò “bambini”) di sei anni.

Nel fosso, Gabriella Selvatico, ill. Ivo Sedazzari, Biblioteca di Lavoro nr. 8, aprile 1973
Nel fosso, Gabriella Selvatico, ill. Ivo Sedazzari, Biblioteca di Lavoro nr. 8, aprile 1973

Riporto integralmente la lista

libri senza parole

Il palloncino rosso, di Iela Mari
L’uovo e la gallina, di Iela Mari
La mela e la farfalla, di Iela Mari
Nel fosso, di G. Selvatico

Libri con breve testo

La storia più bella, di Palmira Maccarini
Era inverno, di Huber
Piccolo blu e piccolo giallo, di Leo Lionni

Leggere questa lista è stato per me illuminante. Sono libri che oggi nessuno proporrebbe in prima elementare. Nessun maestro, nessun genitore. Sono tutti libri che i bambini, in Italia, leggono dai tre ai cinque, che vengono loro proposti alla scuola dell’infanzia. Il confronto con gli anni Settanta è spontaneo. A tre anni oggi, come a sei allora, i bambini non sanno leggere ma non c’è alcun dubbio che se il libro è veicolato nel momento in cui i bambini lo richiedono, manifestando curiosità, desiderio di sfogare o implementare la propria immaginazione, esso li affascina, li coinvolge, li appassiona. [continua a leggere su Libri Calzelunghe]

 

Libri Calzelunghe, Letteratura per ragazzi… per filo e per segni #Il bianco e nero

libri-calzelungheGiovane creatura di dicembre, Libri Calzelunghe è un progetto di cui faccio orgogliosamente parte. È nato con ostinazione, ha superato ostacoli, è diventato forte. È un progetto degno di tal nome. È un canto lento, io lo leggo così, che non cede alle note urlate, ai tempi frenetici. Si muove su di un tema per più di un mese per dar tempo a tutte le voci che lo costituiscono di esprimere la propria. Quello che si conclude proprio oggi è il tempo lieve e al contempo intenso del Bianco e del Nero e io voglio salutarlo proponendovi i primi paragrafi del mio articolo. Da domani 21 gennaio, un altro tema, che potete provare a scoprire qui.

Il bianco e nero un dialogo tra spazio e limite
Il bianco è lo spazio e il nero è il tratto che lo contiene. Potrei dire anche che il bianco è lo spazio e il nero è il limes che ne determina il punto di fuga o la profondità. Nei testi a stampa della contemporanea editoria per bambini si danza attorno a questa semplicità; attorno a questo passo a due tra bianco e nero, si articolano albi meravigliosi e completi, carichi di senso e significanti. Con le ovvie eccezioni.
Passo concitato e trafelato quello del narratore preistorico che stampa in negativo sulla parete rupestre la propria impronta: un confine nero carbone a delimitare lo spazio di un palmo bianco. Non quello dell’esploratore precedente, non quello del guerriero, proprio il suo, a illustrare una storia diversa da ogni altra, in un’unica immagine. [Continua a leggere su Libri Calzelunghe]

Lungo il cammino

A leggere le parole si fa abitudine, a leggere gli spazi è altra questione. L’hanno ben spiegato Angela Catrani e Alessandra Starace in due recenti articoli pubblicati su Libri Calzelunghe.

Si deve allenare lo sguardo, la sensibilità; si deve divenire capaci di far musica del segno stampato, rendere i vuoti e i pieni soffi e respiri, e seguirne il ritmo. Perché certi editori illuminati seminano consapevolmente indizi, sulla strada dei propri libri, seminano a piene mani per offrire ai lettori tutto quanto un testo abbia da donare, con pienezza. Quindi grazie a Orecchio acerbo, che impagina le parole di Isabella Labate sedute vicine le une alle altre, strette tra loro, come a voler ripararsi dal freddo, come a voler sostenersi a vicenda e a voler darsi un legame che è anche del timbro e dell’incedere. Sembra che queste parole vogliano farsi leggere d’un fiato e, per riprenderlo, abbiamo lo spazio datoci dall’interlinea ariosa, appunto, ampia.

Lungo il cammino1
Lungo il cammino, Isabella Labate – 2015, Orecchio acerbo

È un lungo cammino, un cammino dal sapore antico, magico, che, forse seguendo un sentiero indicatomi dagli autori, grazie a caratteri più grandi e in grassetto, forse per semplice istinto, mi sono sorpresa a recitare così, come una storia nella storia, un Mise en abyme raffinatissimo:

Rachele era nella foresta.
Il paese era deserto.
Lei stessa era stata abbandonata.
Da sola.
[…]
Riprese il cammino.
Cosa fare adesso?
Si accorse che il lupo tremava […].

Sono esattamente lì, nel bosco o dinanzi a un convento o al cospetto di un lupo, da sola, abbandonata. E tremo. Tremo per il freddo della neve che mi incalza, per il terrore che mi soffoca, tremo per paura. È una lettura intensa, sospesa tra brevi pause che mi concedo per chiedermi: dove comincia la realtà? Qual è il momento in cui questa storia potrebbe rivelarsi se non vera, quantomeno un presagio di verità?

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Lungo il cammino, Isabella Labate – 2015, Orecchio acerbo

Rachele, compie un viaggio nel presente che è un futuro possibile, uno dei tanti cui siamo destinati, lo fa con sollecitudine mista a rassegnazione. Abbandona il villaggio ormai deserto, con tutto quello che questa scelta comporta. Alla ricerca di qualche essere ramingo come lei. Incontra un lupo e lo fa in un bosco in cui si addentra ma dal quale esce con sollievo, consapevole di lasciarsi alle spalle, e in esso confinate, ferinità e pericolo.

E sale, e salendo si confonde, si confonde tra il vapore denso delle nuvole. Un po’ dimentica, quindi incontra un vecchio che le racconta di tempi ormai perduti ma di una vita che si rinnova, e Rachele giunge a non avere più paura. E le parole si allargano e distendono, tranquille, senza fretta, si assopiscono. E con loro Rachele. Ma non per sempre. Questo non è un racconto di disperazione. Questo è un racconto capace di cambiare registro e colore, cambiare punto di vista, virare sul seppia e mostrarci in una tavola in bianco e nero, al lume di candela, i colori della speranza.

lungo il cammino copTitolo: Lungo il cammino
Autore: Isabella Labate
Editore: Orecchio acerbo
Dati: 2015, 56 pp., 16,50 €

Trovate questi libri tra gli scaffali del Giardino Incartato, libreria per ragazzi in via del Pigneto 303/c, Roma. Oppure, se non siete a Roma potete trovarci su Bookdealer o chiederci di spedire a casa vostra, lo faremo con molto piacere ricorrendo a Libri da asporto.