Di questo albo urge leggere la premessa. Dopo i risguardi riccamente decorati a grosse palle scure spruzzate di neve con un ciuffo di bacche rosse di agrifoglio posto in cima, una accanto all’altra in file regolari, come a disegnare un festone natalizio, lontane dal somigliare alle colorate e sfavillanti decorazioni alle quali le bambine e i bambini d’oggi sono abituati, ma piuttosto somiglianti a pigne del bosco, è all’esimio Professor Clement Clarke Moore che apprendiamo di dovere tutti il caro, vecchio e allegro Babbo Natale con slitta e renne. Era il 1822 quando il rispettabile professore di religione, la vigilia di Natale, seduto al suo tavolo scrisse un poemetto da regalare ai suoi figli, affinché restasse nella tradizione del Natale della sua famiglia, mentre del tutto inconsapevolmente ne cambiava l’aspetto per le generazioni di bambine e bambini a venire.

Il breve poema, che gioca con l’assonanza dei suoni più che su una vera e propria rima, racconta di quella sera particolare dove tutto nell’attesa rallenta, la casa si veste del riflesso della neve caduta copiosa in giardino dando agli oggetti la lucentezza del mezzogiorno. Le calze attendono morbide, poste accanto al camino, la mamma con la sua cuffietta e papà col suo berretto sono pronti per un piccolo letargo notturno mentre i bambini già dormono nei loro lettini. Sogni di zucchero, dolci e profumati fanno capolino nelle loro testoline quando a un tratto un rumore, proprio in giardino. È così che il papà in berretto, camicia da notte e una pesante vestaglia da camera aprendo la finestra e il suo scuro, vede qualcosa che gli sembra in un primo momento ronzare solo nella sua testa intorpidita dal sonno e dal tepore della casa. Invece è proprio St. Nicholas quello che si palesa dal camino, e che con una strizzatina d’occhio e l’indice su naso e bocca, intimando un silenzio carico di complicità, inizia lesto il suo lavoro per balzare poi nuovamente sulla sua slitta, impolverato da cenere e fuliggine, richiamando per nome, una per una, le sue renne e volando via verso altri luoghi, un’altra casa e altra infanzia. Non prima di aver augurato Buon Natale a tutti e a tutti buona notte!

Quello che affascina è la descrizione che renderà del tutto nuovo e famigliare San Nicholas.
Un viso ampio con occhi che brillano, guance come rose e un naso rosso e tondo come una ciliegia. Accanto alla bocca piegata a arco due fossette lo rendono subito allegro e simpatico, come un vecchio parente, un tempo stato una piccola canaglia di cui mantiene lo spirito giocoso. Vestito con una pelliccia scura dalla testa ai piedi, la sua barba bianca spicca come neve, una piccola pipa tra i denti il cui fumo circonda la sua testa come una soffice ghirlanda. E poi la pancia rotonda che tremava quando rideva come una ciotola piena di gelatina.
È piccolo, paffuto e grassoccio come un vecchio elfo allegro, guida veloce una slitta trainata da sette piccole renne, colma di giocattoli di cui riempie sacchi che poi si carica sulle spalle alla maniera dei venditori ambulanti.

Centocinquant’anni dopo, Elisa Trimby, nell’illustrare il poema, ricrea la stessa atmosfera disegnando un Babbo Natale piccino, quasi una figurina che si muove in una casa dove tutto è grande e ricco di particolari. Ha uno zuccotto in testa molto simile alle decorazioni dei risguardi, ornato da due foglie di vischio. Un’allegra sciarpa rossa a pois che sembra ci stia ancora nevicando sopra, le frange delicatamente raccolte e fermate da una perlina bianca, se ci si pone in ascolto non è difficile sentirle tintinnare. Indossa una tuta di pelliccia scura, i polsi riccamente decorati a motivi verdi a foglia di vischio, nella parte alta una doppia fila di alamari in legno la allacciano di lato mentre una fila di bottoncini verdi, proprio là, gli permettono di fare pipì con facilità – ché St. Nick va di corsa e certo non si può spogliare tutte le volte – rendendolo così umano e famigliare da scordarsi quasi che prima ancora di essere Babbo Natale è un santo. Lo sguardo furbetto, le rughe sulla fronte accanto agli occhi decorati da folte ciglia bianche fanno il resto. Pesanti guanti a moffola, come quelli dei bambini, morbidi e gonfi e disegnati di vischio lo rendono proprio uno di casa che rientra dopo una battaglia a palle di neve o un pupazzo.

L’albo è, dal punto di vista visivo molto vario. Alterna pagine con illustrazioni centrali e altre poste come una cornice attorno, piccoli spaccati di una stessa narrazione; in alcuni casi l’illustratrice racchiude la scena in piccoli tondi, altre la lascia a tutta pagina, altre ancora disegna i momenti dell’attesa all’interno di sagome come piccole decorazioni per l’albero. A un interno dettagliato posto magari in un cerchio per focalizzare l’attenzione proprio lì, in quella camera, corrisponde un esterno che fa da sfondo o contorno in un’alternanza di dentro e fuori, caldo freddo, cristallizzato e immobile e fervente di attività, estremamente curato e dettagliato, caldo e famigliare funzionale a un’attesa di un qualcosa o di qualcuno che sicuramente arriverà da molto lontano. Come Babbo Natale o Santa Klaus acquisì una certa altezza, un vocione, renne e slitta proporzionati e un abito rosso fa parte di un’altra storia e forse qualcuno un giorno la racconterà.

Il libro è parte del patrimonio di circa 900 albi illustrati internazionali del Fondo Sergio Silva Libri Illustrati, una collezione ricchissima di grande valore storico e artistico che rappresenta la migliore produzione internazionale del libro per l’infanzia. Albi che hanno partecipato nel decennio 1973-1983 al Graphic Prize della Mostra Internazionale dell’Illustrazione della Bologna Children’s Book Fair dove Silva fu giurato, gentilmente donato dalla famiglia alla biblioteca scolastica La Baia del Re dell’Istituto comprensivo Salvo d’Acquisto di Parma dove si trova attualmente.
Autore: Clement Clarke Moore
Illustratore: Elisa Trimbly
Editore: Ernest Benn Limited, London UK
Dati: 32 pp, lingua originale inglese, 1977