Questa è la storia di come ho letto Il regno invisibile, di Rob Ryan.
Questa è la storia di una famiglia, una famiglia reale che ha un protagonista bambino, prima, e ragazzo, poi.
Si apre con una parentesi, che troverà la sua chiusura in coda alla storia, e ci parla di ritratti fotografici, quelli classici che ciascuno di noi ha in casa: i bimbi da piccoli, la nostra foto del diploma, quella del primo viaggio da soli, quelle in bianco e nero dei nostri nonni, e bisnonni. Ciascun ritratto racconta una storia, che si tramanda di generazione in generazione, di alcuni si perde memoria. È il corso naturale delle cose in una casa come le altre, in una casa come la nostra.

Non accade che un membro della famiglia sia dimenticato, nelle famiglie reali. Per ciascun membro di quelle famiglie c’è un lavoro sulla memoria collettiva che ottiene i suoi indelebili, seppur colorati o sbiaditi frutti.
Continuo a leggere e la storia che mi si racconta è quella di una famiglia reale, di come ciascuno per il solo fatto di essere nato in un luogo piuttosto che un altro abbia più diritto alla memoria costruita. Mi domando dove l’autore voglia condurmi e quindi, con la terza premessa lo comprendo: in un palazzo. Questa che leggo quindi è la storia di un palazzo e di come sia costruito per livelli e di come ogni livello abbia la sua importanza: dal piano più alto fino a quelli bassi, in cui vivono i servi. E i ciabattini.

Però no, non è il palazzo ciò di cui mi si racconta. È la storia, piuttosto, di un bambino. Un bambino solo, un bambino che è una silhouette nera, un bambino ritratto in due dimensioni. Piccolo, silenzioso.
A questo punto comincio a mettere assieme i pezzi: questa è una storia di ritratti, di una famiglia, di un palazzo, di un bambino, poi ragazzo. È una storia di memoria.
E leggendo comprendo che la stanza più importante non è tanto quella del re, ma la soffitta. Assieme alla stanza del ciabattino, il quale si rivela un amico prezioso per il bambino che non ha alcun compagno di giochi e che interagisce solo con gli adulti. Il bambino non ha mai abbandonato il palazzo, non ha idea di cosa sia la città. Per cui, quando la scopre è come se si aprisse davanti ai suoi occhi un mondo sconosciuto.
Come nelle fiabe, il bambino incontra il suo aiutante, umile, sì, ma in possesso di uno strumento magico (un inchiostro che si illumina e rivela disegni e scritte solo sotto la luce di una speciale torcia), che lo aiuta a fissare la propria immaginazione e al contempo a proteggerla da occhi indiscreti. Grazie a questo rituale, che metterà in atto ogni sera, il bambino trova un passaggio segreto verso l’esterno.
Alla morte del padre il suo destino è scritto e si compie: sarà re. Ma prima dovrà raccogliere la vera eredità lasciatagli dal padre, che non consiste in terre o palazzi, ma nella chiave della libertà.
Raccontare questo libro è complesso, perché la storia è molto articolata, complessa, e definendone i dettagli toglierei piacere alla vostra, di lettura. Ciò che non posso esimermi dal dirvi è di come le illustrazioni, realizzate con la tecnica del papercut, siano buie e luminose al contempo. Nelle notti cittadine i lampioni risplendono di una luce che par vera. L’inchiostro magico riluce su tacchi e tende.
La stessa sovraccoperta si trasforma in un grande poster con un opera, anch’essa a papercut, di Rob Ryan.
Titolo: Il regno invisibile
Autore: Rob Ryan
Editore: Ippocampo
Dati: 2015, 62 pp., 18,00 €
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